Una costante di ogni dinamica giuridica e sociale italiana è la guerra tra poveri.
Se ci fate caso, a seguito di una cattiva gestione di tante questioni di rilevanza sociale come scuola e sanità, al di là delle responsabilità spesso in buona parte imputabili a lotte partitiche e a chi ha potere decisionale, le conseguenze si riverberano sulla popolazione che, pur avendo posizioni differenti, a titolo diverso rivendicano lo stesso diritto, scannandosi tra loro.
Un esempio lampante, come detto poco più su, è la questione della scuola: generazioni di precari con titoli e abilitazioni diverse, che tremano ad ogni nuovo articolo giornalistico dalla paura che ci possa essere l’ennesima riforma che li… freghi. Vedersi fregati, vuol dire temere che qualcun altro, probabilmente altrettanto meritevole, selezionato con criteri diversi, prenda il posto di lavoro che ci spetta. E qui parte la guerra tra poveri, a colpi di ricorsi amministrativi, battaglie sindacali e un diffuso senso di frustrazione dalle sfumature di odio che serpeggia tra la popolazione. Ma non finisce qui.
La guerra tra poveri ci pone fuori focus al punto che, pur di vincerla, siamo disposti a mettere da parte tutti i nostri più intoccabili valori perché, si sa, in guerra e in amore tutti è concesso.

Per il livello di evoluzione sociale e culturale che dovremmo aver raggiunto, tutto questo mette i brividi.
Un altro esempio utile è il rifiuto di una fetta di italiani nei confronti dei rifugiati politici, siano essi africani, afgani o ucraini (la guerra tra poveri ha poco a che fare con il razzismo, quanto molto di più con la disperazione. Per certi versi è democratica, non guarda in faccia a nessuno, bianchi, rossi o gialli).
Tra chi sindaca che queste persone non andrebbero accolte in Italia, la tesi è sempre e solo una – oggetto tra l’altro di ulteriore subdole macchinazioni partitiche: prima gli italiani: “non c’è lavoro per gli italiani, non ci sono aiuti concreti per gli italiani, come accudiremo queste persone? Hanno bisogno di andare dal medico e come facciamo se già le liste d’attesa sono lunghe per gli italiani”. Chi parla è chi spesso vive queste difficoltà. Parla degli italiani, ma in verità chiede lavoro, aiuto, sanità per se stesso, poco gli interessa la questione degli italiani. Però si aggrappa a battaglie populiste, promosse astutamente da alcuni partiti, in cerca di speranza.
L’unica vera speranza è combattere uniti per lo stato sociale, il Welfare State.
Il Welfare State, sostenuto dalla fiscalità generale, è l’unico modo per garantirci sostegno nei momenti di difficoltà e ridistribuire le risorse a chiunque ne abbia bisogno, al di là dello status giuridico al cui titolo le richiede.
Combattere per lo stato sociale però ci richiede un impegno in prima persona, come cittadini attivi e non con il frequente “armiamoci e partite” che spesso favorisce la guerra tra poveri.

Combattere per lo stato sociale vuol dire non incattivirci, ma offrirci nuove possibilità. Quali?
Un esempio in merito è Sanna Marin, la poco più che 35enne Prima Ministra della Finlandia. Marin, al di là delle considerazioni politiche che si possono fare, è un esempio di come in un Paese con uno dei più forti sistemi di welfare del mondo, si permetta ad una giovane donna nata in una forte condizione di svantaggio, di salire sull’ascensore sociale al punto di diventare presidentessa del suo Paese unendo competenza e caparbietà, che a volte contraddistinguono solo chi si è fatto da sé.
Nel nostro Paese, è attualmente altrettanto possibile che qualcuno, anzi qualcunA nata in una famiglia con padre dipendente dall’alcool e mamma single poi in un’unione LGBT, possa diventare presidentessa del Consiglio dei Ministri? Io non credo.
Per questi motivi, invece di abbruttirci in guerre tra poveri che nulla apportano al nostro benessere, dovremmo interrogarci su quanto e come esercitiamo la nostra cittadinanza attiva.
A presto,
Giancarla.