Un pomeriggio, in un momento di studio tra ragazzi delle scuole medie, un ragazzino di prima alza la mano. Mi avvicino convinta debba chiedere qualcosa sui compiti ma invece, a bassa voce, mi domanda: “ma secondo te, un maschio si può mettere le calze rosa?” Colta di sorpresa, ho un secondo di spaesamento, ma poco dopo, a mia volta a bassa voce, rispondo:” Certo, se gli piacciono! Può metterle di qualunque colore”. Il ragazzino mi risponde con un “Ah, okay” e riprende a studiare, senza mai più toccare con me quell’argomento.
Questa e altre situazioni simili mi hanno dato molto da riflettere, facendomi pensare a quello che possiamo chiamare bivio educativo.
È quel momento cruciale e inaspettato in cui l’azione educativa può segnare per sempre la vita di un individuo. Si tratta di situazioni inaspettate, sbocciate improvvisamente nella quotidianità della relazione tra educatore ed educando, in cui l’educando, forte della fiducia riposta nei confronti del primo, pone domande o spunti di riflessione di grande rilevanza etica, esistenziale, sociale, religiosa o personale, cercando nell’educatore risposte, se non addirittura soluzioni, spiazzandolo completamente.

Sono situazioni improvvise, con domande anche scomode: come non trovarsi in difficoltà in qualità di educatori?
Occorre partire da una consapevolezza fondamentale: il fulcro del lavoro educativo è racchiuso nei bivi educativi. In educazione si lavora e si costruiscono relazioni per agevolare gli slanci evolutivi dei ragazzi, accoglierli e sostenerli.
Il ragazzo che si fida e affida a noi ponendoci domande esistenziali mentre mangiucchia una Goleador, non è un ragazzo che vuol metterci in difficoltà, che ci mette alla prova nel senso macchiavellico e adulto del termine. È un ragazzo che si sente talmente a proprio agio con noi da concederci l’accesso ai sui dubbi, insicurezze e paure che, anche se inconsapevolmente, inconsciamente affida proprio a noi e non ad altri, e noi abbiamo il dovere di accoglierli e preservarli.
Il bivio educativo tra la strada della crescita personale e la strada del trauma esistenziale.
È in questi momenti che un ragazzo pone solidi mattoncini per quelli che saranno la propria personalità, le proprie idee, il proprio modo di relazionarsi con sé stesso e gli altri. In alcuni casi si assiste a dei veri e propri giri di boa intellettuali, sottili ragionamenti espressi come ovvietà, in grado di far impallidire politici e cultori della materia, sorprendendoci incredibilmente.
Questi momenti però, se mal gestiti, zittiti o rimproverati, potrebbero segnare la crescita di un futuro adulto più di quanto una risposta all’insegna dell’ascolto attivo potrebbe fare. Quanti adulti ricordando un momento di confronto in cui non si sono sentiti accolti da educatori ed insegnanti, raccontano di quanto quell’episodio li abbia segnati? Un esempio lampante lo troviamo nella canzone Io sono Francesco di Tricarico.

Come comportarsi dunque, per non essere colti alla sprovvista e far tesoro del bivio educativo?
Qualsiasi domanda di bambini e ragazzi, soprattutto la più scomoda, in questi casi è posta senza malizia. La maggior parte delle volte in modo inconsapevole o come forma inespressa di richiesta di aiuto. A volte i nostri ragazzi leggono notizie, vedono coetanei o adulti comportarsi in modo per loro incomprensibile e si pongono domande che, non riuscendo a gestire in autonomia, rivolgono a noi perché sanno che siamo lì per aiutarli.
Attenzione: siamo lì per aiutarli, non per offrirgli risposte. O meglio, non siamo lì per offrirgli le nostre risposte, i nostri punti di vista o pareri politici; non siamo lì per indottrinarli, ma per spingerli a pensare. E se su questioni fondamentali come sessualità, riproduzione e diritti umani siamo deontologicamente chiamati a rispondere in modo chiaro e netto per tutelarli da ogni forma di abuso o discriminazione, su altre tematiche dobbiamo avere l’onestà intellettuale di chiarire che ognuno ha opinioni diverse, che anche la nostra è un’opinione sindacabile e che saranno le esperienze di vita a portarli a farsi un’idea, ma che la cosa importante è non chiudersi a nessuna possibilità.
Riuscire a gestire il bivio educativo non si impara a tavolino. Non si imparano né si applicano procedure standard, ma richiede una forma di sensibilità educativa estremamente sottile che si sviluppa con il tempo e l’esperienza grazie ad un costante mettersi in gioco, noi per primi, come educatori. Alla base del confronto con i ragazzi, vi è la nostra capacità di essere i primi a confrontarci con noi stessi e gli altri secondo i principi che cerchiamo di trasmettere agli educandi.

È attraverso sensibilità e capacità di confronto, anche su temi scomodi, che si impara a non sentirsi a disagio o quanto meno a farlo percepire.
Consapevoli della fiducia e della non malizia posta dai ragazzi nel sollevare alcune questioni, è evidente che il senso di disagio che proviamo, non è legato alla domanda in sé, posta candidamente da un educando, ma dai nostri trascorsi personali, dalla cultura di provenienza e dalla società in cui siamo immersi, ancora piena di tabù e tematiche delicate trattate con fin troppa leggerezza.
Affrontare il bivio educativo dunque, ancora una volta, come spesso accade per chi lavora in ambiti socio-educativi, vuol dire affrontare in primis noi stessi, domandandoci perché quelle domande ci facciano star male e quali risposte ci potrebbero aiutare, soddisfare o inibire.
A presto,
Giancarla.