Lo stigma sociale associato a Covid-19, l’infodemia nella pandemia

Il Coronavirus, ormai lo abbiamo imparato, oltre a gravi danni fisici, genera un’ulteriore forma di sofferenza non comune a molte altre malattie: la solitudine di chi lo contrae.

Sappiamo bene che, a seguito della necessità di contenere il contagio, i pazienti affetti da Coronavirus o anche solo positivi asintomatici sono chiamati a mantenere un ferreo isolamento dal resto del mondo, rimanendo soli per settimane intere in stanze dove a visitarli sono solo medici ed infermieri debitamente coperti, al limite del riconoscibile, in attesa della loro negativizzazione: il momento in cui, a seguito di vari tamponi molecolari effettuati, il paziente torna ad essere negativo o non più portatore di una carica virale tale da essere pericoloso per gli altri. A quel punto, il guarito può tornare finalmente ad una vita normale. E qui viene il bello.

Intorno a malati e positivi si è notato da tempo come non sia raro che si verifichino forme di evitamento, derisioni e situazioni sociali spiacevoli di varia natura denunciate dagli stessi ex pazienti che si vedono discriminati, vessati e colpevolizzati a causa della malattia o positività contratta. Il fenomeno in questione è talmente sottilmente diffuso da aver attirato l’attenzione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dell’Ifrc (International Federation of Red Cross e Red Crescent Societies) e dell’Unesco trovando il pieno accoglimento del Ministero della Salute e dell’Istituto Superiore di Sanità che in merito hanno parlato senza mezzi termini di stigma sociale associato a Covid-19.

Cos’è lo stigma sociale?

A teorizzare lo stigma sociale è Goffman nel 1963 in Stigma, l’identità negata, spiegando che l’identità sociale di ognuno di noi, data dall’opinione che socialmente si diffonde di noi, si basa su un grande pregiudizio che a seguito di qualità ben precise, dimostrate e certe, ci incasella in una categoria sociale ben precisa. Tuttavia non è raro che, per ragioni di varia origine, tali qualità socialmente riconosciuteci, non siano così certe e dimostrate, inducendo comunque l’opinione pubblica ad inserirci in una categoria a cui noi non sentiamo di appartenere o, anche se in essa ci riconosciamo, non ci sentiamo rappresentati dalle qualità che a essa sono riferite.

Nel caso in cui la categoria sociale a cui siamo assegnati è considerata socialmente inadeguata, questo genera una forma di marchio invisibile, tale per cui chi ne è parte, vive la quotidianità come fosse marchiato a fuoco, sotto l’occhio discriminatorio di chiunque lo osservi. È lo stigma sociale.

Lo stigma sociale nel contesto della salute

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità: “Lo stigma sociale, nel contesto della salute, è l’associazione negativa tra una persona o un gruppo di persone che hanno in comune determinate caratteristiche e una specifica malattia”.

In una epidemia, come accadde per HIV e AIDS negli anni ’80 e oggi con il Covid 19, questo significa che le persone affette dalla malattia vengono etichettate, stereotipate, discriminate, allontanate e, in casi estremi, soggette a perdita di status sociale a causa di paure e supposizioni altrui.

Photo by David Veksler

Tale esperienza inoltre, non si limita al solo malato, ma investe come un’onda famiglie, amici e intere comunità. L’attuale epidemia di Covid-19, dopo un’iniziale forma di discriminazione nei confronti delle nazioni in cui ha avuto origine il virus, vede ora una crescente diffidenza nei confronti di chiunque risulti positivo o affetto da Coronavirus.

Perché nasce lo stigma sociale?

A prescindere dal contesto sanitario o meno, lo stigma con conseguente discriminazione nasce per paura e ignoranza che, in un contesto come quello di una malattia nuova e ignota, alimentano la nascita di stereotipi, ma non solo.

Lo stigma, inducendo implicitamente all’isolamento di gruppi sociali, genera vergogna in chi ne è parte o pensa di esserne parte, inducendo a nascondere la malattia ed evitando i controlli sanitari, favorendo, al contrario, in chi non si sente parte del gruppo a rischio, la convinzione di poter tenere liberamente comportamenti rischiosi per la diffusione del contagio. In entrambi i casi, la diffusione di stereotipi e stigma favorisce sofferenza psicologica e il rischio di diffusione incontrollata del contagio.

Come contrastare l’Infodemia?

L’Istituto Superiore di Sanità, in accordo con il Ministero della Salute, accanto al termine pandemia ci offre quello di infodemia, intesa come la diffusione incontrollata di informazioni, affermando che: “L’ infodemia di disinformazione e di voci infondate si sta diffondendo più rapidamente dell’attuale epidemia del nuovo Coronavirus”. Ciò contribuisce agli effetti negativi come la stigmatizzazione e la conseguente discriminazione delle persone colpite dall’epidemia.

L’unica soluzione all’infodemia è la corretta informazione. Solamente diffondendo le corrette notizie si potrà controbattere la diffusione di stereotipi inutili e dolorosi.

Le parole contano

Non addentrarsi in spiegazioni o supposizioni su argomenti che non si conoscono, soprattutto quando ci si rivolge a categorie fragili come bambini, anziani o persone che non parlano bene l’italiano. Usare parole semplici, adatte al nostro interlocutore, dare notizie certe senza lasciarsi andare a drammatizzazioni ulteriori e inutili della notizia è l’unico modo per agevolare la corretta informazione. E ricordiamo: in nessun caso utilizzare termini che alimentano paura, colpevolizzano o “disumanizzano” chi è colpito dalla malattia

da Stigma sociale associato a COVID-19 dell’ISS.

Abbiamo bisogno di solidarietà collettiva, di informazioni chiare e facilmente applicabili per sostenere le comunità e le persone colpite dalla pandemia. È bene raccontare i drammi connessi alla malattia e ai suoi strascichi, ma è doveroso, ai fini di una più rapida ripresa sociale, dare ancora più spazio alla prevenzione, alle azioni salvavita, allo screening e alle evoluzioni delle cure.

La solidarietà collettiva e la cooperazione globale sono necessarie per prevenire un’ulteriore trasmissione della malattia e alleviare le preoccupazioni delle comunità.

Fondamentale è curare il linguaggio usato, soprattutto sui social e in ogni contesto con alto tasso di risonanza, condividendo racconti che generino empatia e storie che umanizzano le esperienze delle persone colpite dal Covid, e non le demonizzino; occorre far sentire il proprio supporto a chi è in prima linea nella pandemia, non solo con le parole, ma soprattutto con i fatti, rispettando ogni direttiva data dalle fonti ufficiali, fidandosi e affidandosi.

In fine, è bene ricordare che, date le modalità di contagio, nel momento in cui si contrae una positività è chiaro che ci sia stata una forma di disattenzione nel rispetto delle norme di sicurezza, tuttavia è altrettanto chiaro che i motivi alla base di un contagio possono essere i più disparati. Dunque, se ovviamente è necessario tenere tutte le precauzioni del caso, e se è vero che chi è positivo si è esposto a contagio, non è altrettanto vero che chi è negativo sicuramente non abbia mai tenuto comportamenti inopportuni, ma semplicemente si è trovato in circostanze più fortunate.

Photo by Macau Photo Agency

Nel momento in cui veniamo a sapere che qualcuno a noi noto è risultato positivo o ha il Coronavirus, invece di condannarlo iniziando ad analizzarne i comportamenti, proviamo a ripercorrere i nostri di comportamenti e domandiamoci se sempre, in modo ineccepibile, rispettiamo le regole forniteci per evitare il contagio e se, allo stesso tempo, nella nostra posizione di insegnanti, genitori, educatori, colleghi, fratelli, amici, facciamo il massimo per dare il nostro contributo alla lotta alla pandemia.

Non lasciamoci sopraffare dalla paura, ma preserviamo con le unghie e con i denti le nostre famiglie, i nostri luoghi di lavoro e le nostre comunità. Non allontaniamo per paura chi guarisce dal Covid, ma cerchiamo di capire dalla sua esperienza come evitare che si ripeta negli altri. Il Coronavirus è la malattia della solitudine, facciamo in modo di combatterla: per combattere la solitudine bisogna stare insieme.

A presto,

Giancarla.

Fonti: iss.it; salute.gov.it.

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