Quello che seguirà, in occasione dei 20 anni dalla prima Giornata ufficiale della Memoria italiana, istituita con la legge 211/2000, sarà un articolo diverso dal solito, dove a parlare sarà il protagonista stesso attraverso passaggi del suo libro autobiografico che vi invito caldamente a leggere Per questo ho vissuto: La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili, Bur Rizzoli, 2013. Il protagonista in questione è Samuel (Sami) Modiano, un sopravvissuto alla Shoah che oggi gira scuole e università testimoniando la propria vita.
Sami Modiano però a me è caro per un ulteriore motivo che, se avrete pazienza, scoprirete solo alla fine di questo articolo.
La parola a Sami
Sono nato a Rodi (n.d.r. Rodi oggi è un’isola greca, ma all’epoca dei fatti era italiana) nel 1930. La chiamavano “l’isola delle rose”, perché l’aria è pervasa dal loro profumo. Sono uno dei pochi fortunati a essere nato in questo bellissimo posto. Mio papà si chiamava Giacobbe ed era originario di Salonicco. Era andato con mio nonno Samuel in America in cerca di fortuna, ma dopo qualche anno capì che quella ricerca non avrebbe dato frutti. Tornato in patria, non bussò di nuovo alle porte della sua città natale, decise di puntare verso Rodi, per cercare lavoro e trovare finalmente una sistemazione. Lì mio nonno aprì un negozietto nell’Ukimadu, la Piazza Bruciata, chiamata così in memoria di un incendio che la inghiottì in un tempo lontano. In quel modesto locale vendeva semplici souvenir, piccole cose. Quando arrivò a Rodi, nonno Samuel era ormai anziano […]. Lui e papà erano due degli ultimi rami di una famiglia che si era sparsa in giro per il mondo […].
Fu proprio su questa bellissima isola che conquistò la sua piccola fetta di felicità. Lì mio padre conobbe la mia mamma, Diana Franco, figlia di una famiglia numerosa. Sua madre, Rica, aveva messo al mondo, tra femmine e maschi, ben dodici figli. […] Dal matrimonio dei miei genitori nacque nel 1927 Lucia, la mia sorella maggiore. Tre anni dopo, nel 1930, sono venuto al mondo io. Samuele, per tutti Sami”.
Sami vive un’infanzia serena, in una famiglia numerosa e unita, tra nonni, zii, zie e cugini che non gli negano coccole e affetto. In quegli anni però la migrazione verso Paesi più ricchi e popolosi era all’ordine del giorno e la vita è spesso scandita da dolorosi addii, cartoline provenienti da lontano e parenti mai conosciuti nominati durante riunioni familiari e ricordi d’infanzia degli adulti.
La famiglia di Sami appartiene alla grande comunità ebraica di Rodi, isola in cui la convivenza tra culture scorre serena. Qui infatti sono presenti anche comunità turche e greche.
La sensazione che più ricordo di quegli anni è quella della sicurezza. Mai ho percepito un senso di minaccia, di pericolo incombente. Non c’erano persone o luoghi da evitare, […] non esistevano barriere o distinzioni e io potevo sedere alla tavola di qualsiasi amichetto senza neanche essere invitato. Facevo parte della comunità e per me le porte erano tutte aperte. Tutti quanti ci conoscevamo, uno per uno, eravamo uniti, nella povertà e nella ricchezza. Un legame che al giorno d’oggi è difficile da spiegare ”.

Le leggi razziali e la guerra
Durante la felice infanzia però, Sami vive un primo forte impatto con la realtà dell’epoca: l’espulsione da scuola per motivi razziali.
Ero tra i primi della classe, tra i più bravi. Ero benvoluto dall’insegnante, che non teneva conto della religione. Che fossi ebreo non importava a nessuno, almeno fino a quel giorno del 1938. Avevo otto, otto anni e mezzo, quel giorno. L’anno scolastico era appena iniziato quando una mattina il maestro mi chiamò. Ero contento, perché mi ero preparato per l’interrogazione. Ero convinto che mi avessero chiamato per questo. Invece il maestro mi disse: “Samuel Modiano, sei espulso dalla scuola”. Io non capii, rimasi senza parole. […] Espulso… è la cosa più brutta che può capitare a un bambino che studia e si comporta bene. Cosa avevo fatto di male? […] Quel giorno ho perso la mia innocenza. Quella mattina mi ero svegliato come un bambino. La notte mi addormentai come un ebreo”
In questa circostanza, da una conversazione con papà Giacobbe, Sami sente per la prima volta parlare di razza ebraica e di Benito Mussolini. Da subito la vita per la comunità ebraica di Rodi si fa più dura.
A Rodi le cose cambiarono in peggio, da subito, e fu una catastrofe. I professionisti, come i medici e gli avvocati, non poterono più esercitare la loro professione e tutti gli ebrei impiegati presso società italiane […], furono cacciati. Dopo le leggi gli ebrei di Rodi incominciarono a perdere tutto. […] Per oltre un anno, fra il 1938 e il 1939, non frequentammo nessun istituto, finché non fu riaperta, per un breve periodo, la scuola dell’Alliance Israélite. Noi ebrei cacciati dalla scuola italiana ci ritrovammo di conseguenza a studiare con insegnanti ebrei, costretti a loro volta a seguire programmi imposti dal ministero fascista.
Alle difficoltà sociali però, per la famiglia di Sami si somma un altro grave momento di crisi: la lunga malattia e poi la perdita della mamma Diana.
Poco tempo dopo la mia nascita aveva cominciato ad avere dei disturbi al cuore. […] Le condizioni della mamma cominciarono ben presto a peggiorare e tutta la mia infanzia fu segnata dal terribile tormento del suo cuore. […] Avevo undici anni quando […] mia madre era stata malissimo fin dal mattino […] era chiaro che ormai non c’era più niente da fare. […] Morì che fuori era già buio. Da quel momento le cose a casa cambiarono molto”.
Da questo momento per la famiglia Modiano la vita e i rapporti tra Sami, la sorella Lucia e papà Giacobbe cambiano radicalmente. Lucia, appena 14enne si responsabilizza e assurge nei confronti del fratellino, il ruolo di madre, seguendolo in ogni modo materiale e spirituale immaginabile, accudendo la casa e aiutando il papà nel portarla avanti. Anche Giacobbe, consapevole della grave perdita vissuta dai figli, diventa un precursore dei padri amorevoli e presenti, abbandonando l’aura autoritaria e distante tipica dei genitori di quegli anni. La famiglia Modiano, sorretta dal parentado, si stringe in un amore viscerale che permette a Sami di continuare gli studi, lavoricchiare in una bottega dell’isola e aiutare il babbo nel negozio di famiglia.

Nel frattempo, alle leggi razziali, segue l’entrata in guerra dell’Italia con l’inizio dell’impoverimento di Rodi, il razionamento del cibo e i bombardamenti.
Molti di noi ragazzi credevano, […] che la guerra sarebbe finita al più presto. Era una credenza diffusa, ma non perché fra di noi abbondassero gli ottimisti. […] A Rodi eravamo tagliati fuori dal resto del mondo e noi ebrei in particolare, per via delle leggi razziali, non potevamo avere una radio o un telefono. […] C’era qualche voce che girava in piazza, ma […] erano cose che sapevano solo i grandi. […] Sempre, durante quegli anni di guerra, c’eravamo abituati anche alla presenza dei soldati tedeschi. Io stesso non avevo alcuna paura dei tedeschi, […] riparavano camion e vetture, erano sempre indaffarati e non avevano rapporti al di fuori della loro cerchia. Non frequentavano neanche gli italiani. A vedere quei meccanici silenziosi e riservati, nessuno avrebbe mai pensato al peggio. ”
Tutto questo fino a quando Sami non ha 14 anni. Siamo nel 1944.
L’8 settembre del 1943 cambiò tutto. […] Nel giro di una settimana l’isola di Rodi era in mano ai tedeschi. Da quel momento in poi le cose si sono capovolte e per gli ebrei iniziò la tragedia. Pochi mesi dopo, all’inizio del 1944, le condizioni di vita degli ebrei, già messe alla prova dalle leggi razziali e dalla guerra, erano ulteriormente peggiorate”.
In tanti tentano imprese disperate attraverso il mare per giungere in Turchia e trovare salvezza. Qualcuno ce la fa, ma in tantissimi muoiono o per mare o per fuoco nazista, lasciando intendere al resto della comunità che l’ipotesi della fuga dall’isola non sia contemplabile. Non resta che attendere che le cose si evolvano.
L’arresto e il lungo viaggio
Il giorno dell’arresto ognuno di noi ignorava quello che sarebbe successo. Era mattino, quasi tutti gli ebrei di Rodi erano a casa quando i tedeschi diramarono un ordine: tutti i capifamiglia dovevano presentarsi, forniti di documenti, alla Kommandantur, il comando che i nazisti avevano predisposto nell’ex caserma dell’aeronautica italiana. […] Appena arrivate lì, le persone furono sequestrate e i loro documenti derubati. Il giorno seguente arrivò un altro ordine: tutti i congiunti dei capifamiglia già convocati dovevano prepararsi per un viaggio. Saremmo stati trasferiti in un campo di lavoro. Dovevamo anche preparare un fagotto nel quale bisognava mettere cose da mangiare e da vestire, ma soprattutto i nostri oggetti di valore ”
Così, in un paio di giorni, senza rastrellamenti né l’uso di eccessiva violenza, i circa duemila ebrei di Rodi vengono radunati e arrestati in massa, e costretti all’attesa al comando generale per circa 3 giorni.
Le porte della caserma si aprirono e ci misero in fila per cinque. Una lunga colonna di ebrei scese senza fiatare verso il porto, sotto gli ululati delle sirene. Dovevamo rimanere in silenzio e tenere la testa bassa. Era umiliante. […] Faceva molto caldo, era il 23 luglio del 1944”.
Da questo momento per Sami, Lucia e babbo Giacobbe insieme al resto della comunità, inizia un lungo viaggio nella stiva di un battello durato diversi giorni, alla volta della Grecia. Il battello, insieme ad altri carichi di ebrei, naviga solo di notte. Arrivati, tutti vengono fatti sbarcare e condotti in un carcere nei pressi di Atene; dopo altri 3 giorni di reclusione, inizia il tristemente noto viaggio in treno.
Un mese dopo, l’arrivo a Auschwitz-Birkenau
Arrivato al campo, separato con suo padre da sua sorella Lucia, mandata a lavorare, e destinato a quelle che solo in seguito avrebbe saputo essere le camere a gas, è tra i pochi a salvarsi dalla selezione grazie alla caparbietà del padre.
Alla fine venne il nostro turno. Io ero con mio papà e per la verità non ero stato scelto per andare a lavorare. Fu la tenacia di mio papà a salvarmi la vita. Lui era un uomo di quaranta, quarantacinque anni, alto e abbastanza robusto; mi teneva per mano, dietro di sé, e quando venne scelto per andare a lavorare, nella confusione mi tirò a sé, così sono finito insieme a quelli selezionati per il lavoro”.
Entrammo subito nel ciclo del lavoro. Era durissimo, dodici ore al giorno: si partiva alle sei del mattino e si rientrava alle sei di sera. La nostra giornata si svolgeva così: ci svegliavamo alle quattro del mattino per poi disporci in fila per cinque, allineati fuori dalla baracca. Lì restavamo in piedi anche per un paio d’ore, per un inutile e sfibrante appello. Si doveva stare immobili, con i nostri pigiami e cappelli a righe, in attesa che chiamassero il nostro numero. Io il tedesco non lo sapevo, quindi non avevo la minima idea di come si pronunciasse quel numero. Per fortuna c’era sempre qualcuno che mi avvisava quando venivo chiamato e allora rispondevo prontamente “Jawohl!””
Nel giro di pochi mesi, sopraffatti dalla stanchezza, dalla fame e dall’insoddisfazione di ogni bisogno fondamentale alla sopravvivenza umana, sia Lucia che Giacobbe perdono la vita, lasciando Sami completamente solo.
Una mattina decisi che non ne potevo più, non serviva più che continuassi a soffrire. Lavoravo come un pazzo e intorno a me non avevo più un volto amico. Decisi di non andare a lavorare, di non presentarmi all’appello e di nascondermi. […] Improvvisamente provai paura e, per istinto naturale, mi venne di scappare fino in fondo al campo, pur sapendo che anche lì non c’era via di fuga. L’ultima baracca era una latrina, entrai dentro e mi buttai in un angolo, con le mani sulla testa. Aspettavo che le guardie arrivassero con i loro cani a finirmi. D’un tratto mi accorsi che nella baracca c’era qualcuno. Era un prigioniero politico incaricato di occuparsi delle latrine. Mi prese in braccio e si diresse velocemente verso la botola delle latrine. Io ero immobile, non mi muovevo. Aprì il boccaporto e mi buttò dentro. […] Accucciato, sentii l’arrivo dei tedeschi. Avevano già ammazzato un sacco di gente e forse si erano già calmati. Parlavano con il custode in tedesco, sentivo le voci e quel che si dicevano. Capii che gli avevano chiesto se avesse visto qualche fuggitivo e lui aveva risposto di no. A questo punto se ne andarono. […] Quell’uomo, che non avevo mai visto prima e che neanche parlava la mia lingua, mi aveva salvato la vita. La morte non mi aveva voluto, anche se l’avevo cercata. Non mi voleva ancora… ”
La vita al campo con l’arrivo dell’inverno diventa sempre più dura e in varie occasioni Sami pensa di non farcela. A salvarlo sono la Vita stessa e l’amicizia con un ragazzo romano di un paio di anni più grande di lui, Piero Terracina.
Con Piero potevo parlare finalmente una lingua di casa, l’italiano, e cercavamo di farci coraggio a vicenda. Tra di noi si era creato quel contatto umano che era unico. Ci dicevamo parole di speranza, anche se poi, quando ci guardavamo in faccia, vedevamo che pian piano ci stavamo consumando come si consumano le candele”.
La liberazione
E’ il 17 gennaio quando dopo 5 mesi di indicibile prigionia, Sami viene incolonnato insieme agli altri sopravvissuti fuori dalle baracche di Birkenau per iniziare quella che sarebbe passata alla storia come “la marcia della morte”, un lungo cammino a piedi che in pieno inverno vuole trasferire i sopravvissuti di Auschwitz – Birkenau, ormai in procinto di essere raggiunta dagli Alleati, verso altri campi di concentramento più interni all’Europa. È durante questa marcia che Sami, appena 14enne, ha un ulteriore, pericoloso cedimento fisico.
Quella notte ho dato fondo a tutte le mie forze, ho marciato fino allo stremo, ma non ce l’ho fatta. Avrò camminato per due chilometri o poco più, poi mi sono arreso. Mi sono lasciato cadere. Non mi tenevo più in piedi. Feci qualche tentativo per rialzarmi, ma era inutile. Mi fermai per terra, con le mani in testa, aspettando il colpo di grazia. Ma poi è successo qualcosa che ancora oggi non mi spiego. Due prigionieri, anche loro con un pigiama a righe, ma forse con qualche anno e un po’ di forza in più di me, compirono un gesto che non ha una spiegazione, ma che mi salvò la vita.”
In questa circostanza, allo stremo delle forze e ad un passo da quella che sarebbe stata la liberazione, Sami vive un ennesimo, inspiegabile gesto di umanità da parte di due sconosciuti.
Questi due prigionieri – che non avevo mai visto prima, due perfetti sconosciuti – si chinarono, mi sollevarono, mi presero sotto braccio e mi trascinarono […]. Avevo quasi perso conoscenza, non capivo nulla di quello che stava accadendo. Oltre al corpo, anche il mio cervello era partito. L’ultimo mio pensiero cosciente era stato quello di abbandonarmi, di arrendermi alla morte, e l’ultimo ricordo era quello di aver sentito che avevano smesso di trascinarmi. Mi risvegliai da solo. Non ho idea di quanto tempo sia rimasto incosciente. Mi ridestai su una montagna di cadaveri congelati e mi guardai intorno. Non c’era più nessuno, né prigionieri né tedeschi, né cani né Kapo. Erano partiti tutti quanti. Intorno a me, dove mi avevano abbandonato quei due angeli, non vedevo che cadaveri dappertutto, cadaveri congelati, erano diventati duri. Realizzai subito che non potevo rimanere là, perché mi sarei congelato anch’io”.
Sfinito e solo, Sami si rifugia in una baracca del campo, senza avere la forza di fuggire o andare da nessun’altra parte. Insieme a lui, altri prigionieri riusciti in qualche modo a sfuggire alla marcia.
Ben presto ci si rende conto che il campo è effettivamente vuoto dai nazisti, ma nessuno ha le energie per far nulla… solo con il passare dei giorni, recuperando sonno e un po’ di cibo, Sami e gli altri iniziano a schiarirsi le idee e ha comprendere di essere veramente liberi.
Era la mattina del 27 gennaio 1945, nevicava. Qualcuno dentro il blocco cominciò a dire che i russi erano arrivati. Poi, finalmente, li vedemmo per la prima volta in faccia. Io li vidi dalla finestra. Un carro di legno trainato da due cavalli e un russo con il fucile mitragliatore a tamburo. Dietro al conducente, sdraiata sulla paglia, c’era una donna, una soldatessa russa. Portavano tutti il colbacco”.
Da questo momento in poi, aiutato da una dottoressa russa, Sami inizia un lungo periodo di recupero fisico e psicologico.
Un paio di mesi dopo è quasi del tutto ristabilito e inviato, insieme ad altri italiani, a lavorare con il Genio Civile russo a sostegno delle truppe dell’Armata Rossa.
L’8 maggio 1945, la Seconda Guerra Mondiale è finita.
Una parvenza di vita
Finita la guerra Sami e i suoi compagni vengono ospitati nella cittadina polacca di Opole.
Ci sistemarono in una caserma un po’ fuori mano. Avevamo totale libertà di movimento e potevamo raggiungere il paese ogni volta che ci andava. I russi ci avevano consegnato un lasciapassare che ci faceva figurare come loro collaboratori: mostrando quel documento potevamo superare i posti di blocco senza che ci facessero storie. ”
Dopo un periodo di riposo, seguendo l’entusiasmo di un ragazzo ebreo italiano, Settimio Limentani, Sami sceglie di intraprendere un lungo cammino a piedi dalla Polonia verso l’Italia.
Spaventati dall’idea di essere fermati e nuovamente arrestati, attraversando boschi e campagne, Sami e Settimio viaggiano per più di un mese, arrivando in Austria che, occupata dagli americani, è l’unica porta sicura verso l’Italia.
Ci dissero che c’era un treno che andava verso il Brennero. Questo era un treno normale, per passeggeri, non per animali. Potevi sdraiarti, potevi dormire, c’erano delle fermate, ti davano da mangiare e anche da bere. Per tutto il viaggio restai attaccato al finestrino, era la prima volta che vedevo l’Italia. Pian pianino arrivammo a Roma, alla stazione di Trastevere”.
I primi anni a Ostia e il Congo belga
Arrivato a Roma, dopo qualche giorno ospite di Settimio, Sami comprende che sia il caso di iniziare a costruirsi una propria vita. Aiutato da alcuni conterranei si trasferisce a Ostia, qui riceve sostegno psicologico da La Casa del Reduce e, tra primi amori e primi lavori, raggiunge l’età di 17 anni.

Siamo però nell’Italia del dopoguerra, dove il lavoro scarseggia e la necessità di riallacciare rapporti con i propri cari è sempre più forte. Rodi nel frattempo è passata in mano greca e Sami, da cittadino italiano, non può farvi ritorno.
Ascoltando le parole di alcuni parenti riusciti a rintracciare in Congo, decide di partire e raggiungerli.
Partii da Ciampino i primi di maggio del 1947. Non avevo mai preso l’aereo ed ero preoccupatissimo. Mio zio aveva organizzato tutto dal Congo. Aveva contattato un’agenzia nei pressi della stazione Termini, la Wagon Lit, affinché mi pianificasse il viaggio da Roma a Elizabethville. […] Una volta lì fui accolto dall’affetto di mio zio Ruben, di sua moglie Susan e dei loro tre bambini Rica, Jacques e Viki, ai quali raccontai del viaggio”.
In Congo Sami inizia una nuova vita nel commercio, guadagnando i primi soldi e facendosi conoscere per la sua grande voglia di lavorare. Nonostante questo però, la vita in Africa non è facile e, dopo aver preso più volte la malaria, nel 1954 decide di tornare in Europa a stabilirsi nuovamente a Ostia. Qui, a 24 anni, compra un appartamento in cui vive ancora oggi.
Il ritorno a Rodi
In quegli stessi anni, alle orecchie di Sami giunge l’esistenza della possibilità, data dal governo greco a tutti gli ebrei italiani di Rodi, di poter rivendicare le proprie proprietà. Sami, deciso a rivendicare i propri averi familiari, sceglie di ingaggiare un avvocato, riuscendo ad avere il via libera per tornare a Rodi e riscattare i beni di famiglia.
Ben presto, poco dopo essere giunto in Italia, imbarcandosi da Brindisi, Sami torna dopo più di 10 anni a Rodi. Qui ritrova alcuni parenti e, recuperando dei gioielli d’argento sotterrati dal padre durante la guerra, accanto alla lapide della madre fa installare anche quelle in memoria di Giacobbe e Lucia.
Il ritorno a Rodi, per Sami segna un punto con il passato ma anche un incontro con il proprio futuro: giovane uomo, incontra la giovanissima Selma, un’ebrea di Rodi scampata per miracolo alla deportazione di cui è stato vittima lo stesso Sami.
La relazione a distanza con Selma e il matrimonio
Nonostante la casa comprata ad Ostia e il riscatto dei beni di famiglia a Rodi, il legame con il Congo belga, per Sami è ancora forte, facendovi ritorno. Ma un altro legame nel frattempo ha iniziato a maturare, quello con la giovanissima Selma. Dopo circa 3 anni di relazione a distanza, Sami e Selma si sposano in Congo il 5 dicembre 1957 con rito civile, seguito dal rito ebraico il 10 gennaio 1958.

Selma e Sami iniziano la vita assieme, ma la quotidianità in Congo presto si dimostra poco sicura per una coppia di giovani sposi.
La fuga dal Congo e la vita tra Ostia e Rodi
Nel 1960 l’instabilità politica è tale che l’ascesa al potere del dittatore Mobutu mette nuovamente in crisi la vita di Sami: con un atto forzoso e unilaterale, con un semplice procedimento amministrativo, tutte le proprietà e il conto in banca di Sami e Selma vengono confiscati, lasciandoli, dopo anni di sacrifici, completamente in ginocchio.
Alla giovane coppia non rimane che fuggire dal Congo e tornare ancora una volta a rifugiarsi nell’appartamento di Ostia. Qui, con lavoretti di fortuna, trascorrendo i mesi estivi a Rodi, Selma e Sami iniziano una nuova vita.
Perché proprio io?
Negli anni, affrontando la propria vita con tutte le difficoltà che l’hanno caratterizzata, Sami non è mai riuscito ad condividere le atrocità vissute a Birkenau, neanche con l’amata Selma.
Attraversavo momenti di depressione fortissima, fasi dalle quali non sarei mai uscito se non ci fosse stata Selma. Stare accanto a un sopravvissuto non è facile e la donna che sceglie di rimanere al suo fianco deve imparare a convivere con i silenzi e gli incubi che non lo lasciano dormire. Io ho avuto tante sfortune nella vita, ma anche la buona sorte di trovare una compagna che mi ha capito sin dall’inizio. Una ragazza giovane e bella come Selma avrebbe potuto stancarsi di me e rifarsi una vita. E invece, dopo oltre cinquant’anni di matrimonio, è ancora qui con me. Grazie alla sua insistenza ho trovato la forza e la voglia di aprirmi. ”
A motivare Sami ad aprirsi è il ritrovarsi con Piero Terracina che, a differenza sua, dagli anni’90 sceglie di testimoniare la propria esperienza in tv e nelle scuole.
Con lui parlare di Auschwitz era semplice, quasi inevitabile. Ci eravamo cresciuti in quell’inferno e potevamo discuterne anche senza usare le parole. I nostri occhi, il nostro respiro, le nostre mani: ogni parte di noi lasciava trasparire i segni del campo di sterminio. I ricordi emergevano così spontanei che rievocarli era anche meno doloroso del solito e questo mi faceva ben sperare sulla mia possibilità di affrontare quella che restava la prova più dura: tornare ad Auschwitz.”

E’ l’ottobre 2005 quando, accompagnato da Selma e Piero, Sami prende parte al suo primo Viaggio della Memoria verso Birkenau, affiancando un gruppo di studenti romani.
“Selma” le dissi, “ho capito perché sono sopravvissuto! Per raccontare la storia di quell’orrore, per trasmettere agli altri una testimonianza, in nome di tutti quelli che non ce l’hanno fatta”.
E così Sami, nel gennaio 2010 venne anche da me, o meglio, io andai da lui.
Nella mia Università, quando ero appena 19enne, una matricoletta di Servizio Sociale, ignara della piega che la mia vita universitaria prima e professionale poi, avrebbe preso, Sami decise di partecipare all’iniziativa promossa da un’associazione studentesca che, in occasione della Giornata della Memoria, dedicò una settimana a ricordare quegli accadimenti tra eventi culturali, seminari e rappresentazioni teatrali. A concludere la manifestazione, una conferenza con Sami che testimoniava la sua vita, accompagnato dalla fedele Selma.
Mi vergogno a ricordare che la sala era quasi vuota – non tutti a quell’età e in piena sessione invernale ebbero la sensibilità di comprendere l’importanza dell’evento – io, con una mia fedele amica, ebbi il piacere di scandire lo studio per il mio primo esame universitario con questo suggestivo impegno che evidentemente ha dato i suoi frutti se ancora oggi lo ricordo e lo racconto in questo articolo.
Perciò, caro Sami, semmai leggerai queste righe, sappi che hai contribuito fortemente alla mia formazione personale e professionale, inducendomi alla riflessione e alla condivisione di valori di cui a volte, noi figli della bambagia, non riusciamo a comprendere a pieno il valore.
A presto,
Giancarla.
Fonti: di Storia /in Storia; Fondazione Museo della Shoah – Onlus; Per questo ho vissuto: La mia vita ad Auschwitz-Birkenau e altri esili, Bur Rizzoli, Milano, 2013; RomaSette.it.