“Entrare in un Casa salesiana sarà come entrare in una famiglia”. Così è stato detto a me e i miei colleghi il primo giorno di formazione prima di entrare in servizio in una Casa salesiana, appunto.
Ci è stato detto che saremmo entrati in contatto con tante persone, con tante storie personali che neanche potevamo immaginare, apparendo tutto ai nostri occhi incredibilmente stimolante.

Quello che non ci è stato detto – o che noi non avevamo colto – è che entrare in una famiglia vuol dire accoglierne e condividerne gioie… ma anche dolori. Compresa la perdita improvvisa e inaspettata di uno dei suoi membri, lasciando sotto shock l’intera famiglia, dal più giovane al più vecchio.
Entrando nella famiglia salesiana, approcciandomi al pensiero che la sorregge, ci è stato chiarito che la famiglia di cui inizialmente si parlava, si sostanziava nel concetto di comunità educante.
In virtù del mio percorso formativo e personale, a livello concettuale, la comunità educante non mi è parsa nulla di nuovo: se ne parla spesso in pedagogia e, come è corretto che sia, in ogni istituzione educativa è su essa che si cerca di fondare il proprio lavoro riconoscendo come il lavoro di molti, il contributo di tutti, permetta di creare un ambiente materiale, sociale e psicologico tale da svolgere un’attività educativa profonda e a 360° in modo che nessun aspetto della personalità dell’educando venga trascurato.

Così facendo, l’opera educativa diventa circolare in quanto, pur essendoci dei ruoli definiti tra educatore ed educando, si creerà sempre una dinamica tale che l’educatore apprende dall’esperienza con l’educando e dal confronto con gli altri educatori.
E’ la comunità che consente l’elaborazione e la trasmissione di cultura (sapere + valori) vitale per la persona. E’ attraverso la comunità, dunque, che avviene primariamente ogni forma efficace di inculturazione e acculturazione e quindi di scoperta del vero” (Il pedagogista Gino Dalle Fratte, Studio per una teoria pedagogica della comunità, Armando, Roma, 1991 , p. 34).
Parlando di comunità educante si fa riferimento dunque non alla singola istituzione educativa fisica intesa come scuola, asilo, centro sportivo, circolo ricreativo ecc, ma ad una dimensione metafisica, in cui gli individui che vi ruotano intorno (insegnanti, educatori, genitori, nonni, allenatori, collaboratori ecc. ) ne condividono valori, progetti ed obiettivi volti all’unico grande obiettivo generale comune di formare persone che a loro volta diano vita ai principi che caratterizzano l’Istituzione che li accomuna.

È un’opera educativa che non si limita alle mura della scuola, ma continua e si dirama nelle relazioni che si instaurano tra gli individui; con gli educatori che, prima di qualsiasi altro insegnamento orale da impartire, incarnano nella loro persona e nelle loro azioni i valori che vogliono tramandare offrendo un coerente esempio. Ma in concreto, quando e come tutto questo assume valore nell’epoca contemporanea?
Le dinamiche finora descritte presuppongono un confronto ed uno scambio reciproci costanti eppure viviamo una fase storica in cui il confronto diretto tra le persone, la condivisione di esperienze sembra sembra stiano sfumando.
Sembra che il sedersi a raccontare di sé ascoltando l’altro sia una perdita di tempo, infruttuoso e inutile.
Ciò che conta è essere operativi avendo ben chiari i punti da seguire come se anche le azioni educative o semplicemente le relazioni umane potessero essere parte di un maxi ingranaggio industriale in cui tutto, si quantifica ( “se mi guarda tutte le storie su Instagram e mi mette like, vuol dire che gli piaccio”).
Ma quanto di tutto questo è reale? Quanto arricchisce davvero le nostre vite approfondendo la conoscenza dell’altro o è in grado di lasciare un segno significativo del passaggio di un essere umano?

La poetessa e attivista Maya Angelou diceva “le persone possono dimenticare ciò che hai detto, le persone possono dimenticare ciò che hai fatto, ma le persone non dimenticheranno mai come le hai fatte sentire”. Rispetto a tutte le relazioni che abbiamo intrecciato nel tempo, quante delle persone che ci vengono in mente, solo evocandone il nome, ci fanno sorridere? E le relazioni che abbiamo intrecciato con loro sono state significative per quale motivo? Molto probabilmente perché con loro in particolare siamo riusciti ad instaurare un rapporto più intimo e profondo, scandito da periodiche, anche se non spesso ricorrenti, chiacchierate confidenziali in momenti critici della nostra vita.
La comunità assume e rafforza il suo valore nella società digitale lavorando nel sommerso, intessendo sottilmente e lentamente rapporti significativi stabili pronti ad emergere e a dimostrare la loro forza nei momenti più bui della vita del singolo.
L’esperienza degli ultimi giorni, il lutto che ha colpito la nostra Cass salesiana, mi ha fatto capire che la comunità ha valore e dimostra la sua forza certamente nei momenti di gioia condivisa ma ancora di più nei momenti di estremo dolore, quando tutti, a prescindere dalle attività che stavano portando avanti, si fermano e si stringono intorno alle persone in difficoltà, dimostrando a proprio modo, ognuno secondo le proprie possibilità, il proprio affetto o anche solo il proprio rispetto.

Stiamo diventando sempre più tecnologici, per necessità stiamo lavorando, insegnando, educando, studiando e persino amando a distanza, ma la verità è che i luoghi più frequentati di Internet sono da sempre social e piattaforme di incontri. Qualcosa mi dice che per molti di noi questi sono solo palliativi e che, potendo scegliere, ad un messaggio in direct, continueremmo a preferire un abbraccio sincero.
Il compito di chi lavora in educazione è creare un ambiente tale con i nostri ragazzi affinché sappiano che intorno a loro ci sono persone disposte ad offrirgli quell’abbraccio e li instradino affinché in futuro siano essi stessi a ricreare nelle loro vite, nelle loro famiglie e nelle loro relazioni quelle dinamiche comunitarie tali per cui chiunque sappia sempre di essere accolto e amato.
A presto,
Giancarla.