Educare vs. Indottrinare: differenze metodologiche sul campo non sempre così chiare

Il modo in cui la realtà viene raccontata può cambiare totalmente il punto di vista di chi ascolta, influenzandone opinioni e future considerazioni.

Me ne sono resa conto seriamente in questi mesi di Coronavirus che, bloccando l’attività scolastica tradizionale, hanno voluto che ci si iniziasse a relazionare con i ragazzi via web, aiutandoli con i compiti ma anche affrontando con loro discorsi più o meno profondi e che portassero spesso a riflessioni importanti sulla vita, gli avvenimenti contemporanei e gli eventi passati di storia.

Trattandosi di confronti fuori dalle dinamiche scolastiche, con gruppi di ragazzi ristretti, scendere in riflessioni più profonde è venuto più naturale, ma anche più responsabilizzante.

Come aiutare un preadolescente a capire cosa sia stata la schiavitù negli Stati Uniti al tempo del Black Lives Matter con annesse domande curiose, cercando di dare risposte imparziali e, sebbene date a fin di bene, che spingano al ragionamento autonomo senza trasmettere opinioni personali e senza scadere in un ragionamento al limite del politico?

Si dice che educare significhi favorire nell’altro lo sviluppo di un pensiero critico, non dandogli risposte ma spingendolo a porsi domande. Ma come farlo concretamente?

È una domanda che mi sono posta molto in questo periodo e che mi risuona spesso in mente quando si affrontano questioni storico-sociali perché da un lato so di esserne appassionata, ma dall’altro, proprio per questo, la paura di influenzare con le mie parole il pensiero di un giovanissimo in modo inappropriato, non rispettoso della sua libertà di autodeterminazione, mi spaventa molto oltre che sembrarmi profondamente ingiusto: qualsiasi saranno i loro pensieri adulti, è giusto che siano frutto di una loro maturazione, non di un versamento dei miei pensieri nella loro testa approfittando della fiducia che ripongono in me.

Spinta da questi pensieri, in un periodo tanto delicato come quello che stiamo vivendo, ho provato a tornare alle origini riscoprendo letture pedagogiche necessaire a chiarirmi le idee.

Torniamo alle origini: cosa significa educare

La maggior parte delle persone pensa ancora che educare significhi trasmettere conoscenze tramandando usanze, tradizioni, culture, ma anche valori, opinioni e concezioni spesso tramandati da secoli e considerati per questo il modo “giusto” di intendere la vita.

È anche vero che tale visione, diffusa nell’opinione pubblica ed educativa fino a buona parte degli anni ’60, grazie all’evolversi delle scienze umane si è aperta ad una concezione generalmente più profonda, dando per assodato che educare significhi offrire gli strumenti per vivere nell’epoca in cui si è nati, sviluppando competenze individuali, cognitive e sociali tali dal riuscire a manifestare la propria individualità senza sovrastare quella altrui e senza che quest’ultima ci sovrasti. Occorre trasmettere meno condizionamenti possibili, lasciare che la personalità altrui venga fuori in piena autonomia con la propria originalità e per la propria natura: più si è emancipati mentalmente da tutto e tutti, più si è sani e liberi, capaci di vivere e far vivere chi ci è intorno, al meglio.

Sappiamo trattarsi di un processo di maturazione lungo, tortuoso e molto delicato che non si conclude con il raggiungimento della maggiore età e non va di pari passo con il conseguimento dei titoli di studio ma, al contrario, dura tutta la vita con ritmi e tappe diverse da individuo ad individuo.

Abbiamo imparato inoltre che, sebbene si tratti di una crescita personale questa avviene rispetto all’ambiente in cui si è immersi, inteso in chiave materiale ma soprattutto sociale e relazionale, ed è influenzata in particolar modo dagli affetti e dalle figure educative di riferimento.

A fare la differenza rispetto ad un percorso educativo dunque è la relazione che si instaura tra educatore (formale o informale che sia) ed educando che abbiamo capito dover assumere una dimensione ben precisa: essa deve basarsi sulla stima reciproca.

Stima tra educatore ed educando

Una relazione naturale, spontanea, basata sulla conquista del rispetto e della fiducia reciproci, senza forzature e senza fretta. Nessun timore, nessuna imposizione, nessuna paura dell’altro, nessun autoritarismo ma il riconoscimento da parte dell’educando che l’educatore può essere un punto di riferimento per la propria vita. Un riconoscimento conquistato sul campo con pazienza, presenza e costanza.

Photo by Anna Earl on Unsplash

Tutto bellissimo, ma tra il dire e il fare, soprattutto quando la relazione tra educando ed educatore non è poi così naturale, c’è di mezzo il mare.

Mantenere quell’equilibrio tra il guidare, l’essere un punto di riferimento e il non condizionare, soprattutto quando le cose nella relazione educativa vanno male, non è facile e la tentazione di entrare a gamba tesa nella vita dell’altro, prendendo decisioni per lui secondo noi più sagge, è molto forte. Come rimanere lucidi?

Il focus è sempre l’educando

L’educatrice Giovanna Simonetti suggerisce di ricordarsi di educare, non di limitarsi ad istruire o cadere nella tentazione di indottrinare, attività non propriamente educative.

Occorre tornare a focalizzarsi sulla persona, sul nostro educando. Provare a fare un percorso a ritroso rispetto alle nostre insicurezze per rifocalizzarci sulla specifica persona con cui stiamo entrando in relazione ricordando uno degli assunti principali della pedagogia moderna, ovvero che la persona che abbiamo di fronte a noi ha sempre peculiarità, competenze e qualità tali da determinare un margine di crescita personale mai trascurabile, sul quale lavorare insieme affinché diventi la versione migliore di sé, ossia la più libera, equilibrata e sana nel corpo e nella mente. Tutti hanno questo margine. Non è uguale per tutti né nelle tempistiche né nelle modalità di sviluppo e attivazione, ma è presente in ognuno di noi, e la sfida per l’educatore stà nel non dimenticarlo, cercarlo e farlo emergere in ogni modo.

Photo by Wonderlane on Unsplash

Affinché questo accada però, occorre da parte dell’educatore la disponibilità a mettersi costantemente in discussione, consapevole che le differenze naturali che ci saranno tra lui e l’educando non dovranno essere motivo di scontro, ma di discussione e di crescita personale, dando l’esempio di dimostrarsi lui per primo aperto al dialogo e al cambiamento.

L’educazione dei sentimenti

Un altro spunto interessante ce lo offre il pedagogista interculturale Luigi Secco che ci fa notare che nonostante l’educazione sia spesso confusa con l’istruzione pensando che inizi e finisca nell’acquisizione di conoscenza, ci avverte che la vera educazione, o meglio, che l’educazione si compie quando tocca, coinvolge e suscita emozioni e sentimenti che di fatto spesso muovono l’uomo ancor prima e ancor più intensamente della razionalità. Il coinvolgimento sentimentale infatti, è l’unico che ci fa sentire di essere arrivati davvero al cuore di una questione.

A tal proposito, al fine di evitare di sfociare in comportamenti poco equilibrati, è necessario esperire l’educazione dei sentimenti, esplorando i propri stati d’animo, imparando a riconoscerli e comunicarli nei giusti termini e senza vergogna.

Colui che, fra tutti noi, sa meglio sostenere le gioie e i dolori della vita è, a mio avviso, il meglio educato” Jean Jacques Rousseau.

Photo by Anna Auza on Unsplash

Dunque, dopo aver chiarito una volta per tutte cosa significhi educare per la pedagogia contemporanea, tornando alla domanda di partenza se è possibile educare senza influenzare l’altro, manipolarlo o peggio, indottrinarlo, ci aiuta a trovare una risposta Eduard C. Lindeman, esperto in educazione degli adulti.

Egli, nel 1934, porta avanti una fine riflessione terminologica sulle parole: insegnare, guidare ed indottrinare, ritenendo che insegnare significhi diventare il mezzo per trasmettere e diffondere conoscenza; guidare, sulla base della propria esperienza, aiutare un’altra persona nella crescita, mentre indottrinare significhi insegnare e guidare rigidamente, in modo da preparare l’allievo a vivere in una società costituita sulla base di preconcetti ben definiti.

In tutti e tre gli aspetti si ha una forma di influenza, ma in modalità diversa.

Se l’insegnare e il guidare prevedono una detenzione di conoscenza assodata da parte dell’educatore che, nel caso dell’indottrinamento, prevede un’ulteriore chiusura tale da non prevedere un momento di scambio intellettuale tra educatore ed educando, in educazione spesso si pensa che per educare, per non ostacolare il ragazzo, si debba rimanere il più neutrali possibile.

L’educazione è schierata

A tal proposito, Lindeman dà una chiara risposta:

Neutralità significa non-partecipazione, ritiro dalla lotta. La lotta, ciò nondimeno, va avanti. Nella sfera della storia sociale una qualche sorta di lotta è sempre in corso. Coloro che restano in disparte non per questo purificano il conflitto. La conseguenza principale di questo ritiro è quello di accrescere il potere di coloro che già comandano. Quando gli educatori si ritirano dalle fiamme e dalla polvere del conflitto sociale svolgono due servizi negativi: in primo luogo, aumentano il dominio di chi detiene il potere e, in secondo luogo, si assicurano che la lotta sarà condotta in termini educativamente carenti. In breve, il distacco dell’educatore aumenta solo l’uso della forza e della coercizione. Isolamento, non-partecipazione: si tratta di forme patologiche di purezza, della via più facile per fuggire dalla realtà”.

Così, sulla base degli studi di Lindeman, la pedagogista Elena Marescotti dell’Università di Ferrara nel suo articolo di ricerca La funzione educativa dell’insegnante: guidare e non indottrinare. Prospettive deontologico-scientifiche in Eduard C. Lindeman, afferma che:

L’educazione è schierata e chi si occupa di educazione è inevitabilmente chiamato a schierarsi, ovvero ad esplicitare cosa fa e, soprattutto, perché. Essere neutrali, in ambito educativo (così come, del resto, in qualsiasi ambito), non solo non è opportuno o accettabile ma, a ben vedere, non è possibile, né logicamente né fattualmente: astenersi dal prendere una posizione è, neanche poi troppo paradossalmente, prendere una posizione; così come non-partecipare è, di fatto e comunque, partecipare alla determinazione di un assetto. Piuttosto, illudersi – ipocritamente o in buona fede – della propria neutralità è il pericolo maggiore”.

L’educazione dell’altro passa in primis attraverso l’educazione di se stessi

La dottoressa Marescotti poi continua spiegandoci che obbligo dell’educatore è di rimanere sempre in ascolto, in costante ricerca e formazione rispetto alla propria persona, alle proprie conoscenze e alla propria professionalità. Già “solo” così facendo il rischio di indottrinamento nei confronti degli altri si attenuerà poiché non essendo rigido con se stesso e le sue posizioni, l’educatore sarà aperto al dialogo e al confronto anche con gli altri, mantenendo sempre una consona elasticità mentale.

L’educatore deve far proprio un abito mentale che lo porti ad interrogarsi sulla natura della costruzione della conoscenza di cui si avvale per costruire la relazione educativa con l’altro, sui suoi fondamenti, sui suoi processi; – l’insegnante/educatore deve essere, in prima persona, un didatta: ovvero deve ricercare in proprio, e continuamente, una sempre maggiore coerenza mezzi-fini ed efficacia comunicativa, costruendo e revisionando in itinere gli strumenti del proprio pensiero e della propria azione, a partire dai linguaggi di cui servirsi; – l’insegnante/educatore deve essere consapevole della propria postura, anche ideologica, nei confronti del mondo e dei suoi fenomeni: ciò gli impone un esercizio costante di auto-sorveglianza, di auto-controllo, di riflessività”.

Di fatto, non influenzare l’altro è impossibile, ma è possibile scegliere il come, il quanto e il dove indirizzare la propria influenza con la piena consapevolezza del peso che questa avrà sulla vita altrui. Sarà quindi un dovere deontologico dell’educatore influenzare il presente del suo educando con il pensiero lungimirante del Bene futuro di quest’ultimo.

Ma come capire quale sia il Bene del nostro educando?

Non esiste una risposta univoca: la crescita, l’educazione, la vita sono un terno al Lotto. Nessuno di noi ha la palla di cristallo per prevedere il futuro, ma quando in difficoltà, possiamo tornare alle origini del nostro lavoro riprendendo in mano i capisaldi che ci hanno ispirati a scegliere questa professione, i testi che ci hanno formati e i valori che li hanno determinati.

Certo, abbiamo più volte detto che educare è una crescita costante sia per l’educando che per l’educatore, una costante messa in discussione, ma è anche vero che ognuno di noi ha delle certezze etico-morali su cui fonda la sua vita e la sua professione e la stessa professione ha dei suoi principi fondamentali che la animano.

Tornare a quei principi, declinarli alla nostra situazione e combattere affinché si affermino è di fatto l’unico modo che abbiamo per educare. Anzi, vi dirò di più: tornare a quei principi, declinarli alla nostra situazione e combattere affinché si affermino è di fatto il cuore dell’azione educativa, il nostro dovere professionale supremo dal quale, per considerarci educatori, non possiamo prescindere.

A presto,

Giancarla.

Fonti: Annali online della Didattica e della Formazione Docente; Introversadoc; Luigi Secco; Riflessioni.it.

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