Parlare di popolo, popolazione o patriottismo in un Paese segnato da una dittatura dai connotati nazionalisti, non è facile. Anzi, diventa facile essere fraintesi. Tuttavia, a seguito dei fatti che stanno sconvolgendo il nostro Paese, non soffermarci sulla reazione inaspettata degli Italiani sarebbe ingiusto.
Il Coronavirus è piombato nelle nostre comode vite, fatte di routine e libertà, dal giorno alla notte.
Per mesi ne abbaimo sentito parlare senza avere la reale consapevolezza di quanto potesse toccarci, continuando a percepirlo come lontano.
Ma ecco che dopo qualche ristrettezza, anche curiosa dal nostro punto di vista, tra capo e collo la sera del 08.03.2020 le nostre vite sono state stravolte.
Le nostre vite stravolte
Noi Italiani di oggi siamo stati tutto sommato fortunati, nessuna guerra né altre questioni che abbiano mai miniato davvero la nostra sensazione di benessere. Anche il terrorismo internazionale alla fine ce lo siamo fatti andare bene, abituandoci.
Ma stavolta, invece, è stato diverso.
Ce ne siamo accorti lunedì mattina quando, seppur non ci sia stato chiesto di andare in guerra, ci è stato chiesto senza preavviso di non rivedere amici, genitori e fratelli, di rimanere a casa e limitare ogni possibile contatto con il mondo esterno fino a data da destianrsi, per il loro e per il nostro bene.
Mercoledì 04 marzo ho salutato i miei colleghi e i ragazzi a scuola con un “Ci vediamo domani!”, ma di fatto sono passati più di 15 giorni e a parte qualcuno alla finestra e la gente in fila al supermercato, non vedo nessuno se non il mio ragazzo che vive con me. Lui, tra 7 miliardi di persone, è l’unica persona che io possa abbracciare da qua ai prossimi giorni, l’unico con cui possa condividere un pranzo, una cena o un film. E sono anche fortunata perché c’è chi invece si è ritrovato in casa da solo.
Realizzare questo fa male. Non ci sono mezzi termini, fa malissimo.
La reazione degli Italiani
Ma a provare queste emozioni evidentemente non devo essere la sola perché gli altri Italiani, anche se con un po’ di fatica, si sono chiusi in casa e hanno incredibilmente reagito.
Nell’arco di pochi giorni, hanno iniziato a girare sui social gli avvisi di vari flashmob, ma diversi dal solito: non ci si sarebbe trovati tutti in un luogo, ma tutti alla stessa ora, ci si sarebbe dovuti affacciare alla finestra per cantare insieme una canzone. L’orario stabilito sarebbero state le 18.00.
Un iniziativa semplice, forse un po’ sciocca, giusto per fare un po’ di compagnia a qualcuno… e invece, inaspettatamente dopo la prima sera non solo il flashmob si è ripetuto ma ha registrato sempre più adesioni vedendo l’affermarsi di nuove iniziative.
Nulla di complicato, eppure di grande impatto: molti Italiani dotati di qualche talento tra ballo, canto e suono di uno o più strumenti, hanno iniziato ad aprire le loro finestre e a cantare, ballare, suonare, per allietare il proprio e l’altrui tempo in casa. Ma non solo! Si sono viste adesioni di cantanti d’Opera, dj, comici, ecc. Tutti uniti per condividere e alleggerire questo momento così difficile, risvegliando un senso di appartenenza che nel nostro Paese, noi Italiani contemporanei, non pensavano neanche di poter possedere. E in questo momento fa bene al cuore.
Ma come mai, proprio noi, un popolo non più tra i più felici, un po’ menefreghisti, un po’ egoisti, abbiamo reagito in questo modo? Solo perché siamo “ciaciaroni” o c’è dell’altro?
Anche per trascorrere in modo costruttivo queste ore di quarantena, ho provato a pormi la questione alla luce degli autori più noti delle scienze umane.
La psicologia delle folle
Il primo a porsi davvero la questione dei comportamenti di gruppo, o meglio della massa, è stato Gustave Le Bon. Un autore controverso, considerato uno degli ispiratori delle più importanti dittature del ‘900, che in modo non scientifco nel 1895 pubblica Psicologia delle folle, un libro frutto di sue intuizioni in cui analizza le dinamiche relazionali che si sviluppano nelle persone a livello psicologico e sociale quando sono parte di una folla.
La definizione che egli dà della folla è pressapoco questa: non consiste necessariamente in un grande numero di persone riunite nello stesso luogo, ma piuttosto nella condivisione di uno stato d’animo; ci si libera della propria individualità per raccogliere caratteristiche nuove che ci accomunano al resto della massa.
Tuttavia l’accezzione data da Le Bon non ha nulla di positivo, anzi.
Racconta di una realtà in cui l’intelligenza, l’emotività e i sentimenti individuali sono del tutto superati da quelli della folla, perdendosi.
L’individualità viene cancellata in nome di un pensiero comune.
Il risvolto della medaglia sono la depersonalizzazione del singolo che non riconosce più la propria identità se non nella folla stessa e la sua conseguente deresponsabilizzazione: le azioni dell’individuo non sono più percepite dallo stesso come una sua diretta responsabilità, ma frutto del pensiero della folla che lo nasconde in una sorta di anonimato. Così facendo, il singolo si sente libero di agire non tenendo più conto della preopria coscienza, ma solo del pensiero condiviso, arrivando a compiere gesti che mai avrebbe pensato di realizzare se fosse stato da solo, anche andando contro i propri interessi.
L’esempio più concreto sono gli atti di vandalismo che si registrano in alcune manifestazioni, quando persone apparentemente onesti cittadini sembrano perdere ogni contatto con la realtà finendo con il distruggere auto e negozi.
Per questo, secondo Le Bon, la folla è in grado di scatenare e liberare le più intime pulsioni umane, agendo in modo irrazionale e privo di logica.
Dunque, seppur lo stesso Le Bon ritiene che possegga comunque una propria moralità, l’immagine che viene data della folla, per quanto tra le più note delle scienze umane, fortunatamente non riesce a descrivere quanto sta accadendo in Italia.
L’intelligenza collettiva
Ad aiutarci a comprendere meglio, quasi 100 anni dopo, troviamo lo studioso francese Pierre Lévy che nel 1994 pubblica l’opera L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio.
Infatti se nei decenni successivi a Le Bon la psicologia sociale ha continuato a studiare il comportamento del singolo rispetto alla collettività, le accezioni del comportamento umano assunte dai diversi autori hanno voluto spesso un individuo che nel contesto di gruppo tende a depersonalizzarsi e deresponsabilizzarsi lasciando spazio ad incredibili atrocità come il genocidio degli Ebrei o la morte di Kitty Genovese.
Tuttavia, durante il ‘900 la tecnologia si evolve dando vita a Internet e a mille altre nuove modalità di comunicazione che permettono agli uomini di comunicare praticamente con chiunque, ovunque si trovino.
In questo modo, seppur un puntino microscopico nel Cosmo, ogni individuo ha avuto la possibilità di far sapere al mondo il proprio pensiero.
Ovviamente questo ha prodotto grandi vantaggi, ma anche immensi svantaggi, uno su tutti, oggetto di grande dibattito, sono le fakenews.
Ma, ancor prima di questa degenerazione dei nuovi mezzi di comunicazione, Lévy teorizza l’intelligenza collettiva.
Si vede la nascita di nuove modalità di legame sociale caratterizzate dal trovarsi e riunirsi seppur digitalemente intorno a opinioni ed interessi comuni, permettendo a chiunque di ritrovare i propri “simili” e sentirsi parte di un gruppo. Inoltre il potersi incontrare e confrontare, genera la possibilità di apprendere e conoscere costantemente, decidendo di mantenere o modificare le proprie opinioni. Tutti meccanismi di pensiero e di relazione impensabili fino a pochi decenni fa.
Ciò che caratterizzava le folle di cui parlava Le Bon era proprio una forma di incoscienza generale con una sorta di maccanismo del telefono senza fili che trametteva idee senza che tutti avessero una percezione chiara di quanto sostenuto, muvendosi poi per istinto e imitazione, a volte degenerando e affidandosi al leader che riusciva a risultare più carismatico e attendibile.
Oggi invece, potendo accedere potenzialmente tutti a tutto, seconod Levy si è venuti a generare una forma di in “intelligenza collettiva”, ossia una forma di intelligenza, distribuita ovunque, continuamente alimentata, coordinata in tempo reale, che porta alla diffusione effettiva delle competenze.
Piuttosto che appiattirsi come accadeva nella folla, l’individuo si emancipa e e civilizza, ponendosi di fatto al servizio della comunità.
Ora, se vi chiedessi: stanno avendo peso le nuove tecnolgie sulla quarantena degli Italiani e sul loro modo di organizzare le loro giornate, le loro comunicazioni… e i loro flashmob?
Sapete per esempio che tra le mille sfide che sta vivendo il nostro Paese in questo momento, una delle tante è che mai ora sono state messe alla prova le telecomunicazioni e che per questo si sta lavorando anche per non far collassare tutti i sistemi informatici?
E ora vi chiedo: quanto vedere video, ascoltare musica, fare videochiamate, sapere come stanno gli altri, magari sentire i loro sfoghi o i loro incoraggiamenti vi sta motivando a tenere alto l’umore?
La saggezza della folla
Successivo alla teorizzazioze di Lévy, è il concetto di saggezza della folla, presentato nel 2005 da James Surowiecki, secondo cui non solo si può parlare di un’intelligenza collettiva, ma questa spesso, in media, è anche molto vicina alla correttezza dei contenuti.
Infatti, non solo i contenuti sono in grado di girare meglio e in maggiore quantità migliorando la conoscenza del singolo, ma sono anche in grado di alzare mediamente la conoscenza generale facendo in modo che, nel momento in cui una massa è interrogata riguardo un argomanto, in media la risposta data sia quella giusta, avvallando la posizione degli esperti.
Dunque, le masse di oggi, usando parole spicciole ma efficaci, non sono più greggi di pecore che seguono ciecamente un pastore, ma sono parte di un sistema in cui ogni individuo è un nodo fondamentale, senza il quale il sistema sarebbe del tutto diverso, rendendo quindi l’apporto del singolo sempre determinante.
Questa visione della folla moderna forse inizia a calzare di più con la nostra fattispecie. Eppure manca una componente ancora fondamentale per noi Italiani: la parte emotiva.
Più d’uno sostiene che ci si ritrovi sul balcone perché siamo degli scansafatiche, per fare baldoria e metterci in mostra, perché è ciò che gli Italiani fanno da sempre.
Cari amici che siete in quarantena come me, siamo sinceri: ballare e cantare, riscoprire, ma soprattutto condividere momenti di vita con gli altri sta salvando le nostre giornate.
Nel mio quartiere c’è un uomo che ogni giorno, alle 18.00, inizia a suonare la tromba deliziandoci e… commuovendoci. Quando usciremo da tutto questo, lui sarà il ricordo più bello che porterò con me e mi piacerebbe anche sapere chi sia per ringraziarlo di quanto sta facendo per ognuno di noi quotidianamente.
Non siamo solo una folla, noi siamo un popolo
A quanto detto finora, dobbiamo aggiungere un altro, penultimo tassello.
Proprio poco prima che chiudessero le scuole, con alcuni ragazzi abbiamo ripetuto geografia. Il caso ha voluto che l’argomento fosse proprio la differenza tra popolo e popolazione, dunque, ricordando con nostalgia quel momento, ripeto semplicemente a voi quanto aiutato loro a capire.
Spesso, nel linguaggio comune si usano indistintamente i termini “popolo” e “popolazione”, ma tra i due vi è un differenza sostanziale.
La popolazione comprende un insieme di individui che legalmente vivono in un determinato territorio. La stragrande maggioranza di loro spesso condivide la stessa cittadinanza, la stessa lingua e la stessa cultura, ma non è detto. Si tratta quindi di un concetto pratico, utile a circoscrivere per questioni statistiche, giuridiche o economiche un gruppo determinato di persone rispetto ad altre.
Quando si parla di popolo, invece, si esprime un sentimento. Poco o nulla attiene alla sfera giuridica, ma tutto si estrinseca in un sentimento di appartenenza comune tra persone che, in questo caso si, hanno la stessa lingua, la stessa cultura e le stesse tradizioni. In alcuni casi popolo e popolaizone possono coincidere, ma non è detto. Pensate a tutti gli immigrati che, seppur giunti in un altro Paese magari assumendone anche la cittadinanza, continuano a conservare la loro lingua d’origine, le loro festività ecc.
In Italia, fino a qualche giorno fa forse ci ritenevamo solo una popolazione, adesso, si spera una volta per tutte, abbiamo riscoperto l’amore per la nostra cultura, le nostre tradizioni e i nostri piccoli riti quotidiani. Ragazzi dai, facciamo le videochiamate per predere il caffè con i nostri amici, ma quanto siamo italiani?! Ovviemente lo dico per ridere, ma sappiate che Giancarla vi vede che vi vengono gli occhi lucidi sentendo l’Inno e guardando le immagini delle città sempre più vuote e silenziose.
Il fattore italiano
Un ultimo dettaglio esclusivamente per importanza che ci farà avere il quadro completo è quello che ho voluto chiamare “il fattore italiano”.
Come sapete, purtroppo l’Italia non è l’unico Paese a vivere momenti tanto duri a seguito del Coronavirus. La Cina, il Giappone e la Corea prima di noi, mezza Europa e America dopo di noi. Ma perché proprio noi abbiamo reagito cantando, suonando e lanciandoci messaggi d’affetto costanti?
I momenti di agitazione e panico non sono mancati neanche da noi e alcune persone faticano ad accettare la quarantena, ma perchè per esempio noi non ci siamo subito messi in fila per comprare armi per difenderci come invece hanno fatto altrove?
Perché la nostra cultura, le nostre tradizioni e la nostra storia sono impregnate di filosofia, arte e ogni genere di studio umanistico, senza contare la religione cristiana che ha contribuito a diffondere valori universali come la solidarietà ed il perdono.
Dall’epoca della civiltà romana e dell’incontro tra Greci e Romani, in quella che oggi è l’Italia si discute di diritto, si pongono questioni etiche e morali, si studia e si cresce vedendo e apprezzando il bello ripercorrendo il pensiero di filosofi, sociologi, antropologi, anche di criminologi, si ascolta l’Opera, si vedono opere d’arte e architettura millennaria ovunque e dovunque.
Certo non siamo tutti esperti di opera lirica né di quadri, anzi, spesso siamo i primi a trovare queste cose noiose e a prendere dibattiti stupidi cercando di rimarcare quanto ormai sia inutile lo studio delle materie classiche, prime fra tutte proprio la filosofia ed il latino.
Ecco in questi giorni state vedendo che non solo tutto questo non è inutile, ma ci sta salvando la vita.
Fin da piccoli, senza accorgercene, cresciamo in una realtà dove la famiglia e la condivisione sono considerati valori imprescindibili da molti. “Dove si mangia in due, si mangia anche in tre”, quante volte lo abbiamo sentito dire? E le nonne che cucinano per un esercito compresi amici, vicini e parenti di 80° grado? Oppure del caffé che è una scusa per dire ad un amico che gli si vuol bene, ne vogliamo parlare? La nostra quotidianità si muove da sempre sulla convivialità (e sul cibo, è innegabile) e lo fa da tempi immemori.
Tutto questo può sembrare sinonimo di assurdità, frivolezza e perfino cafoneria, ma la verità è che appena andiamo all’estero, sono i primi meccanismi relazionali che ci mancano insieme il modo di salutarsi più caloroso.
Siamo per nomea chiassosi e a volte approssimativi, ma se sappiamo che un amico è solo in casa, lo invitiamo da noi “per stare tutti insieme” e tutto questo è solo il frutto di una lunga tradizione di riflessioni sulla vita, sull’esistenza, sul perchè del bene e del male.
È l’eredità di Seneca e Cicerone, di Leonardo, ma anche delle grandi personalità della Chiesa come San Francesco, degli immensi artisti come Michelangelo, Botticelli, Caravaggio e Canova, del Dolce Stil Novo di Dante, Petrarca e Boccacio e del Rinascimento! E l’intraprendenza di Cristoforo Colombo, Marco Polo e Garibaldi? La pedagogia di Don Bosco, Maria Montessori e Loris Malaguzzi? Potremmo andare avanti per interi paragrafi.
Tutto questo ha fatto sì che diventassimo un popolo implicitamente profondo, sensibile al bello ed empatico, per questo anche accogliente ed affettuoso.
Certo, non siamo un popolo perfetto, anzi!! Non immaginate quante volte io stessa abbia pensato di andare all’estero per le mille difficoltà lavorative, ma in questo momento sono felice di essere proprio qui con voi e testimoniare del musicista che suona la colonna sonora di Nuovo Cinema Paradiso o il Silenzio di Nini Russo per le vittime di questo orribile Coronavirus, in una Roma deserta che applaude a urla “bravo” dalle finestre.
Non siamo un popolo perfetto, veniamo da una crisi economica e lavorativa spaventosa e non sappiamo come usciremo da questa pandemia, ma adesso sappiamo di avere le risorse psicologiche, emotive e sociali per tirarci su. Dobbiamo solo non scoraggiarci, continuare così, e non dimenticare mai, soprattutto quando tutto questo sarà finito, quanta meraviglia possiamo tirare fuori se solo ci mettiamo un po’ d’impegno.
Continuiamo così e andrà tutto bene.
A presto,
Giancarla.
Fonti: Il pensiero storico; Metamorfosi digitale; L’intellettuale dissidente; Start Magazine; Tesionline; Treccani: popolazione e popolo.