Riconoscere il buono che la vita ci offre #1: il Teatro

Innamorata delle nuove esperienze, domenica sono andata a teatro.

Sebbene la mia “nuova esperienza” possa apparire di poco conto in quanto probabilmente molti di voi a teatro vanno spesso, so benissimo che tanti sfigatelli like me, a teatro vanno poco o non vanno mai, per questo, con immenso entusiasmo, vorrei condividere con tutti voi questa bellissima ed emozionante esperienza.

Chiariamo, non è che non sia proprio mai stata in un teatro o non abbia mai visto una rappresentazione teatrale, semplicemente non mi si è mai posta l’occasione di incrociare serenamente una locandina, di decidere di comprare dei biglietti e di godermi uno spettacolo teatrale con attori Veramente Bravi in un teatro Veramente Teatro.

Con teatro-Veramente-Teatro intendo non un auditorium, un cinema-teatro o un teatro moderno, ma un teatro storico, secolare con dettagli in velluto rosso e volute dorate, con gallerie, ordini e palchi. Con un audio unico, di quelli dove non era previsto il tecnico del suono e dove tutte le emozioni erano prodotte dal talento degli attori.

Un teatro come il Teatro Marrucino di Chieti.

Entrando nel dettaglio, con  la mia dolce metà, lo scorso marzo abbiamo acquistato due biglietti per “Van Gogh. L’odore assordante del Bianco”, spettacolo teatrale basato sull’opera di Stefano Massini, con la regia di Alessandro Maggi e la magistrale interpretazione di Alessandro Preziosi nei panni di Vincent Van Gogh, che racconta del periodo trascorso dall’artista nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rèmy, in Provenza, dove, a seguito di problemi psichiatrici causa di allucinazioni visive ed uditive, alla fine del XIX secolo, all’età di 36 anni, il pittore olandese decise volontariamente di ricoverarsi. Questo momento della sua vita fu comprensibilmente molto duro, ma anche artisticamente molto prolifico, tanto da indurre Van Gogh a realizzare 150 dipinti in un solo anno di degenza, fino a quando, ingerendo i flaconi di colore, l’artista non tentò il suicidio, spingendo i sanitari ad imporgli il divieto di dipingere. In “Van Gogh. L’odore assordante del bianco”  come afferma lo stesso Maggi:

Van Gogh ci appare nella stanza di un manicomio. Nella devastante neutralità di un vuoto si rivela e si indaga la sua disperazione. Il suo ragionato tentativo di sfuggire all’immutabilità del tempo, all’assenza di colore alla quale è costretto, a quell’irrimediabile strepitio perenne di cui è vittima cosciente all’interno come all’esterno del granitico “castello bianco” e soprattutto al costante dubbio sull’esatta collocazione e consistenza della realtà. La tangente che segue la messinscena resta dunque sospesa tra il senso del reale e il suo esatto opposto.

Accanto ad Alessandro Preziosi, fondamentali i ruoli ricoperti da Francesco Biscione nei panni del direttore dell’ospedale, e da Massimo Nicolini, interprete di Theo Van Gogh, amato fratello del protagonista. Loro tre sono stati a dir poco sublimi.

Dal momento in cui si sono spente le luci e in platea è sceso il buio, in quei pochi istanti prima che si aprisse il sipario, in sala è scesa la Magia.

Vincent ha iniziato a rotolare su sé stesso, figurativamente e realmente, sul pavimento della sua stanza bianca di Saint-Rémy, domandandosi dove fosse, se il Theo che vedeva fosse reale, chiedendogli di giurargli che esistesse e di riportarlo alla Vita. Theo, altrettanto sconvolto, giurava di esistere, di essere giunto a Saint-Rémy con quattro treni ed un carretto solo per avere un saluto da Vincent, solo per sapere come stesse e se avesse bisogno di qualcosa. Ma Vincent non voleva fraterne visite, voleva essere libero e tornare a Parigi. Vincent urlava e si disperava perché Theo, grazie all’articolo 5 del regolamento del manicomio, potesse garantirgli di tornare al mondo. Occorreva solo una sua firma. Per Theo era uno scarabocchio, per Vincent era la libertà. Theo amava Vincent e decise di accettare, proprio mentre i due infermieri entravano in stanza per preparare Vincent per la cena. Ma Vincent non voleva cenare, meno che mai si voleva calmare, Vincent voleva solo uscire e non poteva più aspettare. Non poteva aspettare i documenti, le firme, le raccomandazioni mediche. Le urla attirarono il medico, un uomo più instabile dei suoi pazienti, che con crudeltà, vomitò a Vincent che Theo non era mai arrivato con quattro treni ed un carretto, i quattro treni ed un carretto non lo avevano mai visto Theo, l’unico a vederlo era Vincent, nella sua testa. Vincent si disperò, sconvolto, urlava e si dimenava al punto da indurre gli infermieri a contenerlo con lacci e cinghie. Ma al momento della legatura, il direttore del manicomio, più umano dei suoi sottoposti, intervenne. Cacciò il dottore che godeva nel distruggere l’arte di Vincent, cacciò gli infermieri pronti ad imbrigliare il suo genio, e si sedette con lui, pronto ad ascoltarlo. Così Vincent si calmò, si ritrovò e lo accettò. Lo ascoltò, lo comprese, lo interpretò. E lo dipinse.

Le urla, i pianti di Vincent, l’amore per lui di Theo, la grossolanità degli infermieri, la cattiveria del medico, l’empatia del direttore sono corsi vibranti in ogni seduta, lungo ogni balconata, per quasi un’ora e mezza, facendoci sentire lì, vicini a più di un secolo fa, in una stanza dove il nichilismo del bianco era così accecante da stordire olfatto e udito, dove la bellezza della natura era dietro le sbarre e l’unica salvezza era l’immaginazione in cui liberare il proprio estro. Dove il celebre Van Gogh, simbolo di una Nazione e attrattiva di una Città, era solo l’imprevedibile Vincent, in attesa che il fratello Theo, con quattro treni ed un carretto andasse a liberarlo.

Svariati minuti d’applausi, attori richiamati in scena più volte, pubblico in piedi e io e la mia dolce metà che abbiamo speso i 17,00€ migliori della nostra vita.

A presto,

Giancarla.

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