Avete presente l’immagine di un adulto, accucciato in un punto, con le braccia tese, pronto ad afferrare un bambino traballante che muove i primi passi? L’adulto è lì, è presente, attento e concentrato, pronto a recuperarlo, ma attende e lascia che il bambino, anche a fatica e con estrema lentezza, muova i suoi primi passi, perché sa bene che sono solo i primi, ma fondamentali, di un’imminente rivoluzione esistenziale per la vita del bambino. L’adulto è presente, ma non agisce fin quando il bambino non dimostra di averne davvero bisogno. L’adulto non lo ostacola, ma attende.

Questa è l’immagine che dovete avere in mente quando pensiamo ad una figura di riferimento che sta accanto a qualcuno impegnato in un percorso di risalita o resilienza.
Molto spesso, invece, a causa dell’amore che si nutre per la persona in risalita, si tende ad attuare una serie di comportamenti inadeguati, al fine di aiutarla e tutelarla, con il solo esito di ostacolarla e indispettirla:
- Sostituirsi a lei, materialmente e psicologicamente
Pensando di alleviarne le difficoltà, in base alla loro origine, si tende a sostituirsi alla persona progressivamente, in tutto e per tutto: dagli aspetti materiali a quelli emotivi, sostituendola nella cura della casa, nelle preoccupazioni per i figli, escludendola da scelte determinanti e, a volte, anche dalla cura della persona stessa che in alcuni casi, pur necessitando di assistenza fisica, si tende ad iper proteggere.
Quel che ne viene fuori è il rischio di minare l’indipendenza della persona e, a lungo termine, la sua stessa autostima.
Ciò che accade è, in prima battuta, un adagiarsi della persona sulle cure ricevute che, successivamente, si traduce nella convinzione di ricevere tante attenzioni in quanto non in grado (o non più in grado) di poter compiere quelle stesse azioni in autonomia. A lungo andare, l’autostima della persona ne viene distrutta e il suo cammino di ripresa, conseguentemente mal influenzato.
- Pensare di sapere cosa sia meglio per l’altro, più di quanto l’altro sia in grado di decidere per sé.
Pur essendo in buona fede, vediamo l’altra persona come un essere fragile, da proteggere e per questo non sempre in grado di prendere decisioni abbastanza ponderate o mature, soprattutto sulla propria vita. Ne segue che, nel momento in cui la persona prende una decisione che non condividiamo, pensiamo che lo faccia perché non in grado di decidere per il meglio, e non perché frutto di un punto di vista diverso dal nostro, ma altrettanto competente.

Un chiaro esempio di questo meccanismo, lo vediamo nella serie tv Virgin River, dove una giovane donna, dopo aver subito gravi traumi, sceglie di cambiare vita e ricominciare in una cittadina di montagna, abbandonando la grande città. Per tutta la prima stagione, nella sua ombra, c’è la sorella maggiore rimasta nella grande città, che, preoccupata, non fa altro che ripetere che la scelta presa sia insensata e inadeguata.
La conseguenza peggiore è che la persona in fase di ripresa, possa sentirsi sola, non capita e per questo allontanarsi dalla fonte di tanta ulteriore frustrazione. Mel di Virgin River, infatti, più di una volta sceglie di chiudersi e chiudere le telefonate con la sorella, oppressa da tanta foga protettiva, ma distruttiva.
- Ricordare alla persona che ha sofferto e che dovrebbe reagire ed agire di conseguenza
Questo aspetto rientra in parte nel secondo punto, ma è molto più sottile e ampio. Quel che accade è che non solo si pensa di sapere cosa sia meglio per l’altro, ma anche come questo dovrebbe reagire ed agire in determinate situazioni. Dunque, se una persona ha un lutto e non stramazza al suolo, piangendo disperatamente, si deduce che stia reprimendo le proprie emozioni.
Quel che non si prende in considerazione, in questo caso, è che la reazione alle situazioni critiche, è del tutto soggettiva e frutto di meccanismi interiori che dall’esterno, non è detto che si percepiscano e comprendano.
Come fare dunque a stare accanto a qualcuno in risalita, senza sovrastarla e cadere in questi errori?
Il riferimento va sempre all’équipe che accompagna il cammino di risalita dell’individuo o, qualora non ci fosse, all’esperto di competenza per la specifica tematica es. un lutto importante è bene che venga sostenuto da una figura psicologica. E se questo non dovesse bastare o non fosse nell’immediato attuabile?
Il punto di partenza rimane l’ascolto attivo
L’ascolto attivo è uno degli strumenti di lavoro dei professionisti dell’aiuto, tra medici, psicologi e pedagogisti, ma dovrebbe essere anche un modus operandi dell’agire relazionale umano, soprattutto nelle relazioni più significative. Dunque, ascoltare attentamente ciò che ci viene detto da chi è in risalita rimane il punto di partenza e di arrivo per chiunque voglia condividere con lui o con lei il cammino di risalita. Non possiamo pensare di chiudere una conversazione importante, senza essere certi di aver compreso le ragioni dell’altro, senza aver provato a metterci nei suoi panni e aver immaginato la situazione a cui si riferisce.

Così facendo, ci renderemo conto che sebbene il cammino iniziale resiliente non era strettamente rivolto a noi, questo ci ha inglobato, innescando una profonda crescita personale anche in noi, figure di riferimento.
A presto,
Giancarla.