La disabilità non è normalità, la disabilità è diversità. E meno male.

Il 13 settembre 2021 si è assistito all’ingresso di Manuel Bortuzzo nella casa del Grande Fratello: sarà il primo concorrente in carrozzina a partecipare al reality.

L’intento è dimostrare che una persona disabile può fare tutto e anche di più, superando costantemente i propri limiti.

Per qualcuno la scelta di partecipare è sciocca, ma il ragazzo ha 22 anni, è pieno di energie, desideroso di nuove esperienze e se pensa che per la sua vita sia opportuno vivere questa, fa bene a farla.

Ad essere discutibile, invece, è stato il linguaggio dal presentatore che, seppur in buona fede, ha continuato a ripetere “la disabilità è normalità!”, quasi a minimizzare in modo innecessario.

La disabilità non è normalità, la disabilità è diversità. La disabilità non è totalità, ma è una dimensione che, insieme a tutte quelle che compongono una vita, caratterizzano la persona, rendendola diversa o, meglio ancora, unica.

Inclusione non vuol dire appiattirsi tutti noiosamente sotto il parasole della normalità, non notando le incredibili sfaccettature che la vita di ogni individuo può assumere. Significa riconoscere che Manuel sia in carrozzina: è lampante! E far finta di nulla sarebbe irrispettoso del suo trascorso (e del suo coraggio!!), soprattutto se poi ci si gira e a mezza bocca, si dice “che peccato, è così un bel ragazzo!”.

Inclusione significa rivolgersi a Manuel come Manuel, come nuotatore, come ragazzo che conta la sua vita a suon di tatuaggi che sì, sarà il primo concorrente in carrozzina, e se si agita davanti alle telecamere, si sistema 80 volte il papillon. Significa non accostarlo sempre alla dicitura “in sedia a rotelle” ma, quando lo si accoglie, indicargli subito tutti i percorsi accessibili in modo che possa muoversi in autonomia senza che debba chiedere lui per ogni singola necessità.

La disabilità, al pari di ogni altra dimensione della vita, crea identità, definisce, se non stravolge l’immagine che una persona ha di sé, influenzandone la vita personale e quella di chi gli è intorno; all’inizio ovviamente in negativo – sfido a dire il contrario – , poi, come ogni altro grande spartiacque della vita, ci si adatta e, con il tempo, si scopre che ci ha permesso di percepire dimensioni dell’essere che altrimenti non si sarebbero mai vissute.

Photo by Elevate

Ma la disabilità è una sfaccettatura dell’identità di un individuo, non la sua essenza, e lui o lei vive una vita diversa e unica a prescindere, non solo in quanto disabile.

A definirne l’identità di una persona, c’è l’educazione ricevuta e come la si è interiorizzata, le esperienze vissute, il percorso di studi e di lavoro intrapreso, i viaggi fatti, gli hobby portati avanti, gli incontri avuti e le relazioni intessute con animali e umani, e tanto altro.

Normalizzare all’insegna dell’inclusività dunque, non vuol dire ignorare l’unicità di chi abbiamo di fronte, ma riconoscere che quella persona non si identifica per una categoria, magari la più evidente che appare nell’immediato ai nostri occhi; vuol dire partire dal presupposto che quella persona è, in quanto tale, unica e irripetibile, che oltre la prima apparenza vi è molto altro e che l’ipotetica categoria iniziale da potergli affibbiare è solo frutto di un filtro sociale, spesso culturale, privo di ogni spessore umano.

Se partiremo da questo assunto, ammettendo la nostra ignoranza su tutti i temi che non sono di nostra stretta competenza, agiremo nell’ottica della sospensione del giudizio, rivolgendoci a quella persona per quella che è: se stessa. Per cui rivolgendoci a lei, la identificheremo semplicemente con il nome o il ruolo in quel contesto attribuitigli, senza dover aggiungere nessun altro, inutile dettaglio.

Così facendo ci predisporremo a conoscere solo Manuel, Beatrice, Assunta o la dottoressa Kashani o il signor Kim. Siamo tutti diversi, siamo semplicemente noi stessi.

A presto,

Giancarla.

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