La povertà educativa ereditaria raccontata da Shameless

La prima volta che ho sentito la parola “grottesco” la ricordo bene, ero al liceo e studiavo letteratura latina. Non ricordo a quale autore o a quale opera si riferisse, ma ricordo di essermela ripetuta in testa e che da allora “grottesco” è diventato parte integrante del mio vocabolario. Ebbene, quella parola oggi mi permette di descrivere con un solo vocabolo una delle serie tv più amate degli ultimi anni, la suprema Shameless. La serie tv grottesca per antonomasia, che senza alcun tipo di vergogna – manco a dirlo – racconta situazioni tragicissime, affrontate in modi talmente assurdi e in un quadro talmente paradossale, da far ridere per non piangere.

Protagonista é una famiglia gravemente disfunzionale in cui i figli crescono a cavallo tra l’abuso e l’incuria.

Shameless, originariamente made in UK, ci racconta nel suo più fortunato remake americano, di una famiglia composta da padre e (forse) madre persi tra abuso di sostanze, alcool e disturbi mentali, e una selva di ragazzini e ragazzine, quasi tutti minorenni, costretti ad arrangiarsi per sopravvivere in uno dei quartieri più impegnativi di Chicago. Questo è il quadro offerto dalla disturbante puntata pilota, risucchiandoci presto in un viaggio lungo ben 11 stagioni in cui a turno amiamo e odiamo ogni personaggio.

E 11 stagioni sono proprio 11 stagioni, circa 10 anni in cui quella selva di ragazzini e ragazzine diventano uomini e donne, provando a sbarcare il lunario con le poche risorse materiali e ancor meno emotive di cui dispongono.

L’autosabotaggio e la sindrome dell’impostore figli di un attaccamento tutt’altro che sicuro (Bowlby, ti voglio bene), sono delle vere e proprie colonne portanti della psicologia dei Gallagher: quando sembra che ce la stiano per fare, ecco che qualche pensiero intrusivo si insinua, conducendo al cataclisma in un nanosecondo.

I Gallagher non hanno la capacità di portare avanti relazioni sane, siano esse d’amicizia o d’amore. I Gallagher urlano, ma non parlano: non sanno cosa significhi il dialogo, il compromesso o l’empatia. E se da bambini, tutti, a turno, quasi come in un rito di passaggio all’adolescenza, hanno provato e riprovato a dare una chance ai loro genitori, accettando, ad esempio, che papà – meglio noto solo come Frank – dormisse ubriaco e sudicio nel letto di Debbie o inventasse un cancro terminale sul povero Carl per pochi spiccioli, presto, disillusi, hanno compreso che forse era meglio concentrarsi solo sulla propria vita e tentare di salvarsi.

Ma come salvarsi dato che nessuno gli ha neanche mai spiegato che con il detersivo per i piatti non ci si può lavare i capelli?

La soluzione tentata da Fiona è stata abbandonare la scuola per farla frequentare ai più piccoli, facendogli da “mammina”. Ottima idea se solo non fosse che senza un diploma non si possa svolgere alcun lavoro onesto e la voglia di indipendenza si faccia sempre più forte nonostante la responsabilità legale di occuparsi dei più piccoli fino ai loro 18 anni. Cosa fare, dunque, quando bussano alla porta un buon lavoro e un ragazzo carino senza precedenti penali? Ma buttare tutto all’aria, ovviamente! Perché anche se Fiona è poco più che 20enne e la prima di una nidiata di fratelli, ha già vissuto tante vite in solitudine, troppe vite, e anche le cose belle vanno sapute cogliere, investendo le giuste energie per alimentarle e accrescerne il valore. Fiona si perde, bisognosa di un cambio della guardia alla guida della famiglia ma, presto detto, a darle il cambio non c’è nessuno. Fiona lo sa e forse per questo si perde ancora di più.

In verità, qualcuno ci sarebbe: Lip, l’unico che nel frattempo sembra riuscire a imboccare la strada giusta, pieno di potenzialità e con un futuro tutto da scrivere. Ma chiunque abbia studiato sa quanto sia un lusso potersi dedicare solo allo studio grazie al supporto della famiglia, e se questo manca, ecco che lo scricchiolio é dietro l’angolo. Se poi fino a quel momento si é stati abituati a ottenere ogni cosa letteralmente a forza di sgambetti e spinte, comprendere altrettanto letteralmente che si debba fare la fila, che gli approcci fisici e diretti nei confronti delle ragazze non sono rispettosi e che rutti e parolacce non sono adatti alle aule di un’università non è facile. Noi ridiamo, ma immedesimandoci nei panni di Lip, il senso di inadeguatezza ci pervade in un attimo.

Lo stesso senso di inadeguatezza si comprende vissuto a più riprese anche da Mickey che Gallagher non é, ma dati i nobili natali Milkovich, é messo anche peggio. Etichettato da subito come il “ragazzo bianco più sporco d’America”, in seguito sarà crudelmente preso in giro come “inetto sociale”. Mickey é cresciuto come una bestia, a stento sa scrivere, entra ed esce dai riformatori, ogni due parolacce ne infila tre (anche se noi lo amiamo pure per questo) e non ha la minima idea di cosa significhi ricevere una gentilezza né di cosa voglia dire verbalizzare un’emozione. Non é assolutamente in grado di muoversi in contesti non degradati, risultando impacciato e vulnerabile, motivo per cui ogni tentativo di uscire dal famigerato South Side è per lui un buco nell’acqua. Mickey, la cui emotività è stata murata viva nel suo corpo, con le sue sole forze realizzerà un toccante percorso di crescita, costantemente infestato dalla presenza del padre da cui, nei centellinati ma profondi momenti in cui riuscirà ad aprirsi, tenterà sempre di distanziarsi nettamente.

E poi c’è Ian, che nonostante viva una delle evoluzioni più dolorose, alla fine della lunga carrellata di puntate, è forse quello che ne esce meglio ritrovando la caparbietà che lo aveva contraddistinto nelle prime stagioni, riuscendo a realizzare gran parte dei suoi sogni di ragazzino. E’ però quello che tra i Gallagher ha gli scontri più duri con Frank, non riconoscendolo minimamente come genitore: nessun momento di tenerezza degno di nota in ben 11 stagioni, mentre svariati sono gli scambi taglienti e a tratti violenti. Di rimando, Ian è quello che vive con più tragicità l’abbandono e poi la perdita della madre Monica, rivestendo un po’ il ruolo del Gallagher-non Gallagher, l’unico con le idee chiare sul suo futuro che quando decide di mollare e sparire, effettivamente non impensierisce nessuno, fino a quando a trovarlo non ci penserà qualcun altro. A ben vedere, la sua voglia di mollare tutti (prima) e la svolta mistica (poi) sono più che comprensibili.

Mickey (Noel Fisher) e Lip (Jeremy Allen White).
Ian (Cameron Monaghan), Carl (Ethan Cutkosky) e Liam (Christian Isaiah).

Che dire di Carl? Carl é una speranza. C’è un effetto farfalla nella sua vita che, nel punto più basso, ci fa comprendere quanto sia importante ricevere un adeguato sostegno nei momenti più cruciali della propria crescita. La persona giusta al momento giusto diventerà per lui un riferimento tale da segnare per sempre il suo cammino e spingerlo a stravolgerlo completamente. Pensate a quanti e quali altri significativi traguardi si possano raggiungere se adeguatamente sostenuti!

Ci sono poi Debbie e Liam.
Debbie, dolce Debbie. Tra i personaggi meno arrivati al cuore del pubblico (anche al mio, devo essere onesta), ma da vedere sotto tutt’altra luce quando si realizza che l’intera sua crescita è stata segnata dal desiderio di essere parte di una famiglia unita e amorevole. Come dicevo, da bambina asseconda Frank fino all’inverosimile nella speranza che diventi un genitore affidabile, arrivando a sostituirsi a lui, per poi cercare strenuamente una gravidanza con il suo primo ragazzo incastrandolo senza malizia, con il solo pensiero di poter entrare a far parte del solido clan familiare di quest’ultimo. Crescerà Frannie con il costante pensiero di darle tutto ciò che non ha avuto lei, secondo le possibilità e la (im)maturità di una mamma giovanissima del South Side, arrivando anche a mettere in crisi la propria vita sentimentale pur di avere accanto una persona che “non abbandona i suoi figli” e “dando di matto” pur di continuare a vivere con i fratelli anche in età adulta. Infine Liam. Lo conosciamo con il pannolino e lo salutiamo alle soglie dell’adolescenza, spettatore della crescita dei suoi fratelli-genitori che, più immaturi di lui, provano a trascinarselo dietro in ogni circostanza commettendo anche errori madornali, proteggendolo però dalle ben più gravi mancanze vissute nelle loro infanzie. Certo, non sarà suo padre, ma tutto sommato la vita che gli si prospetta con Lip non potrà essere tanto male.

“Sei un* Gallagher!”: un mantra in cui sono racchiuse tutte le certezze di cui avrebbero bisogno e che loro stessi non sanno quantificare.

Con quel “sei un* Gallagher” ripetuto fino allo stremo nei momenti di difficoltà, si dicono “ti voglio bene”, “ci sono per te”, “ce la farai”, “sei brav*”, “sono fier* di te”. In effetti, pur non avendo le risorse per capire chi vogliono diventare, tutti e tutte capiscono che di certo non vogliono essere come Frank e Monica, sforzandosi, con crescente consapevolezza, di rompere il cerchio della povertà educativa ereditata e, a vedere il lungo percorso di crescita vissuto da ciascuno e ciascuna, c’è da scommettere che ognuno di loro, a modo suo, ce la farà: del resto sono dei Gallagher!!

A presto,

Giancarla.

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